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domenica 26 maggio 2024

Noise

A pochi anni luce da qui
C’è un pianeta dove piovono vetri
Splendono le fessure sottili
Pulsano le ferite fra mille cadenze sospese
Come un coro eterofonico
Come palpiti di un cuore a più voci
Come un inutile segnale di vita
Inghiottito dallo spazio fra le stelle. 

Margine

Avrò forse un becco nuovo
E nuovi artigli e un paio d’ali di nuovo robuste 
Ma il mio volo naturale è a pelo d’acqua
Sulle pianure alluvionali e sui deserti d’occidente 
Il cuore pompa solo ectoplasmi di sangue
Fantasmi inadatti a sfidare i monsoni.

Per sei lustri ancora di finta giovinezza
Un compenso salato di grande dolore
Il martirio, l’attesa, poi piume da strappare
E dolore nuovo che si somma al vecchio
Notti insonni a cavallo del confine
A cercare le stelle su un sentiero di transito
Aquila vecchia non si arrende al tramonto
Cantilena la vita, cantilena la vita.

Miodesopsia

Se solo sapesse Eugenio

Del suoi tratto atlantico sprofondato
Che l’anima lo rincorre ingoiando muri
E ossa e carne di vestali a vana difesa del tempio

Se solo sapesse che il tempio è in rovina

E che i muri non hanno più crepe

E sono fresca maceria su cui latrano i cani

Eugenio dorme sul fianco sinistro

Il capo adagiato sul cuore

Il cuore sui frammenti di marmo

Se solo sapesse che il tempo

È scaduto da tempo

Se solo sapesse.

 

Risacca

Una cosa vorrei dirti prima di lasciare

Ma non so se ti conviene

Ascoltare

 

Puoi far finta di niente, alzare i tacchi

E andare

Presentarti nuda all’offertorio

Senza aver più nulla

Da dare

 

Dimenticarmi e ancor di più

Dimenticare

Marchiarmi a fuoco col timbro del passato

Grumo nero sulla schiuma

Del mare

 

Sono tutto o sono niente

Sono come

Ti pare

Ma non so se ti conviene

Ascoltare

 

Euritmica

Dalla finestra di casa mia

È stormire di fronde

È nuvola ad imbuto

È luce intermitente sulle facciate

È dolore muto

 

È macchina ferma ed impolverata

È il tè delle cinque non consumato

È tempo veloce che ogni tanto frena

È sangue sui tetti

Andato in cancrena

Sospensione

Mi hai letto la mano

E poi mi hai sorriso

Un secolo prima che il tempo 

Si facesse d’ovatta

Pioggia che scende più nera

Il baco si è fatto materia

Si muove leggero

Fra matasse di sogni e di pane

Baco nel sonno dell’idolatria

Orecchie che non hanno sentito

Occhi che han visto

Pioggia nera cadere

Eclisse per immagini

Mi hai cremato in un giorno di aprile

Fra le camelie e i narcisi

Hai soffiato in direzione del mare

Lontano, oltre le croci di maggio

Verso il lembo d’Africa

Dove tutto è scarico e freddo

Come la cella di Chessman

Quando le mandorle bruciarono

Come il cuore di mia madre

Fermo sul monitor

Come il tempo che finisce

O non é ancora iniziato

Come me, come ero

Prima di esser nato

sabato 25 maggio 2024

D’oro il dardo

Ascolta, Dafne

Un’ultima volta ancora

Lo so, non vuoi più sentire

ed il troppo vedere ti procura sete ed affanni

Ma anche io, come te, ho vissuto per un tempo infinito

E le piaghe sono necrosi ormai

E le passioni, maschere spente

Siamo soli, Dafne

Ciascuno nel solco della propria indolenza

Ciascuno con la propria candela e l’inchiostro seccato

Spenti gli sguardi, ferme le mani

Il fantasma di un sorriso, Dafne

Lontanissimo e vago

La frazione di senso, Dafne

La frazione di senso 

Angustia

Lascio la mia poesia tra le tue mani
Anzi tra le tue dita

Dita sporche di rimozione

Al taglio profondo avvezze

E dalla terra debole

A volar via leggere

 

Fanne ciò che vuoi

Senza contropartita

Sii esecutore o alabastraio

Aguzzino o pifferaio

Presente, passato

O le due cose insieme

 

Non c’è luna che non sappia

Luna che non conosca

La mia onda compressa

E la sua risacca

Falciami come se fossi grano

O se no dimenticami come sempre è stato.



Marcel

Ecco, la vedo

La nebulosa d’Occidente

Rosemonde, Albertine, Andrée

E chissà quante altre

Un unico abbraccio

Un’anima sola e mille facce

Indistinte e incompiute

Un’anima sola

Antica, distante

Raggi intrappolati

Nel morbido feltro

Luce d’ovatta

Tempo infinito

Weltanschauung

Ora che i vecchi siamo noi
E gli avamposti della nostra miseria
Sono scomparsi oltre l’orizzonte del cosmo
Lasciandoci nudi, insepolti e vivi
Ora che le nostre afflizioni ci hanno reso carnefici
E le nostre paure, assassini
Ora che è tardi per imparare ogni cosa
E sempre troppo presto per poterla insegnare
Ed il gusto è cambiato e l’olfatto pure
E la vista, l’udito ed ogni altro senso
Ora che tutto è accennato e nulla è compiuto
E le proteine iniziano a nascere in posti sbagliati
Ed i cani randagi a morire nei loro canili
Ora che il mondo ci ha messi da parte
Riservandoci un posto in penultima fila
Ora che tutto è finito e niente è iniziato
Ora che il viaggio ha il sapore di un treno mancato
Vorrei due nuove mani per stringere le mie vecchie mani
Due occhi nuovi per guardarmi allo specchio e sorridermi
E una canzone qualunque che si possa cantare
Con la bocca chiusa e rivolta al mare

venerdì 10 maggio 2013

Scrittura notturna

La scrittura notturna è la più maledetta tra le scritture. È quella che nasce dalla sconfitta, dalla rinuncia alla lotta. È una scrittura senza ali e senza catene, libera senza sapere dove andare. Non ha contenuti e non conosce percorsi. È uno strisciare nel buio, nel buio senza ostacoli. Un arrampicarsi sulla scala infinita dei propri disordini, delle proprie nefandezze o virtù.
Nasce per non essere letta e muore la notte stessa della sua nascita. La sua vita dura quanto quella del piccolo insetto acquatico simile alla libellula che si chiama effimera: un'ora e mezza, tutt'al più. Poi annega trascinando con sè il nulla, povera tenebra immota e bagnata senza speranza di riemersione.
Puoi forse incontrarla in un momento di solitudine e fartela scivolare addosso come uno di quei pensieri dai contorni indefiniti che talvolta ti sfiorano senza lasciare traccia né voglia di riprenderli, quei pensieri che non hanno priorità alcuna nella scala dei tuoi interessi, come le strade senza nome o i prodotti senza marca.
La scrittura notturna non ha la forza per restare attaccata a nessuna memoria. È un viaggio continuo senza sosta e senza meta. 
E così, prima ancora che quei flash siano un vero ricordo, hai già scritto del bambino che vide il palloncino rosso sfuggirgli di mano e attaccarsi al soffitto di una stanza senza sedie, senza mobili, con le pareti bianche bene in vista. Hai già scritto di come rimase a guardarlo col naso all'insù per un tempo silenzioso e lunghissimo, mentre la radio a transistor con le sue pile scariche gracchiava la canzone delle scarpe nuove di vernice ed il cielo era verde dietro i vetri della finestra, i lampioni giù in strada tardavano ad accendersi e sua madre lo chiamava dall'altra parte della casa e la voce faceva un effetto strano, come di palla di cannone, perché la casa era vuota e disabitata e qualcuno voleva venderla a tutti i costi.  
Perché non fu mai sua? Perché il palloncino non voleva saperne di scendere da quel ricovero innaturale? 
È ancora lì?

martedì 7 maggio 2013

Pezzi di vetro e la Vergine delle Rocce

E se vi dicessi che i versi di "Pezzi di vetro" sono un concentrato di misantropia e misoginia? 
Il fascino di De Gregori, del giovane De Gregori, sta nel tenere nascosto   un amaro giudizio sull'umanità. Il suo è un pudore che si veste di ermetismo e ti abbaglia con l'incandescenza delle immagini, poetiche e non decodificabili.
Avete presente i quadri più celebrati della storia della pittura? Mi viene in mente la Vergine delle Rocce con i suoi occulti riferimenti massonici oppure la figura demoniaca che fa capolino fra i seguaci di San Benedetto nel dipinto dell'Aliense esposto nella basilica perugina.
I grandi artisti nascondono la verità dietro rappresentazioni a prima vista celebrative: una verità, molto spesso , di segno diametralmente opposto.
Così Pezzi di Vetro, che a primo acchito suona come una struggente storia d'amore con tutte le magie ed il  carico di materia sognante che accompagnano da sempre la descrizione di questo sentimento, fa parte di quelle opere che come la Vergine delle Rocce celano una realtà ben diversa: la messa a nudo della sterilità della fascinazione maschile e l'assoluta incapacità femminile di andare oltre la facciata dell'amore.
"L'uomo che cammina sui pezzi di vetro
Dicono ha due anime e un sesso
Di ramo duro il cuore".
La figura maschile viene subito dipinta come illusoria: non c'è magia che non nasconda un trucco, come quella dell'astrologo, del cartomante ed appunto dell'uomo che cammina sui pezzi di vetro. Ed infatti, come sempre vuole la leggenda popolare, quest'uomo ha due anime. E' Apollo e Dioniso, Eros e Thanatos. De Gregori mette in scena lo spettacolo dell'amore: l'uomo ne è il protagonista unico; spettatrice, la donna. "Dicono ha due anime e un sesso"...Chi lo dice? Chi lo pensa? È lei ad attribuire all'uomo un sesso solo (desiderio di monogamia) ed un cuore di ramo duro. La donna confonde lo spettacolo di magia con la realtà perché non può o non vuole accettare  la presenza di trucchi. Nel gioco della seduzione l'uomo è una divinità, non un prestigiatore. Dalle mie parti, in Emilia, non a caso le donne chiamano il loro innamorato IL MAGO.
Ecco dunque chi sono i protagonisti di questa storia al momento di entrare in scena: un prestigiatore ed una spettatrice infatuata, incapace di vederlo nella sua dimensione reale.
Prima di proseguire, vorrei soffermarmi sulla finezza poetica del verso che stiamo analizzando: cos'è "di ramo duro"? Il sesso, il cuore o entrambi? Troppo pudico De Gregori per dire chiaramente che nell'immaginario della donna innamorata c'é anche posto per una virilità esplosiva oppure è la donna stessa a non volerlo urlare ai quattro venti?
Andiamo avanti.
"E una luna e dei fuochi alle spalle
Mentre balla e balla
Sotto l'angolo retto di una stella".
La cecità della donna continua a mietere luoghi comuni e ad allontanarsi dalla realtà: eccola ora nell’atto di disegnare una scenografia poetica e a collocarvi la sua calamita sentimentale, l’eterno ballerino in armonia perfetta con l'universo.
"Niente a che vedere col circo
Nè acrobata nè mangiatore di fuoco
Piuttosto un santo a piedi nudi
Quando vedi che non si taglia già lo sai
Ti potresti innamorare di lui
Forse sei già innamorata di lui".
La dimensione magica ubriaca la donna e la conduce al rifiuto della natura teatrale della scena di cui l’uomo-pavone è attore protagonista. La necessità di abbandonarsi al culto della divinità è più forte di mille ragioni.
"Cosa importa se ha vent'anni
E nelle pieghe della mano
Una linea che gira
E lui risponde serio 'è mia'
Sottintende la vita".
La lettura della mano è l'occasione per riaffermare il carattere divino dell'uomo, ormai pienamente soddisfatto della riuscita del suo gioco di seduzione: nella mia mano è scritto il mio destino, sembra dire, ma io sono una divinità, nulla può sconfiggermi; io sono in grado di sottrarmi al fato.
"Non conosce paura
L'uomo che salta e vince sui vetri
E spezza bottiglie
Ride e sorride perché
Ferirsi non è possibile
Morire meno che mai
E poi mai".
Qui l'autocompiacimento per la consolidata dimensione divina è al suo apice. L'uomo si sente immortale grazie alla soggiogazione amorosa della donna. Ride e sorride compiaciuto della trasformazione dei suoi trucchi in magia.
"Lui ti offre la sua ultima carta
Il suo ultimo prezioso tentativo di stupire
Quando dice 'È quattro giorni che ti amo
Ti prego non andare via
Non lasciarmi ferito'".
Proprio l'apice dell'amore è anche però il suo triste epilogo: senza soluzione di continuità, De Gregori passa a rivelare la vera natura dell'amore, la sua finzione, il suo trucco. È come se strappasse l'abito all'improvviso, lasciando la divinità nuda e dunque umana, con tutte le sue miserie in perfetta evidenza. La magia è scomparsa, ora c'è solo la rincorsa disperata e miserabile dell'uomo verso l'oggetto del suo amore perduto.
Perché è finito l'amore? La donna si è accorta del trucco?
Neanche per sogno.
"E non hai capito ancora come mai
Gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai
Però stai bene dove stai".
La donna ha sì sentito svanire la magia ma non ha capito affatto ciò che le è accaduto. È pronta per vivere una nuova infatuazione ed una nuova sconfitta senza consapevolezze, senza costrutto, senza senso.
L'uomo e la donna sono per De Gregori figure comiche ed affatto simbiotiche. La loro unione nasce e muore nell'arco di quattro giorni e si nutre di manipolazione, ebetudine, incoscienza e distruzione.
Eppure, ogni volta che la ascoltiamo, questa canzone ci commuove profondamente.
Ci si può dunque commuovere anche difronte al cinismo, all'anticelebrazione, alla messa in mora dei sentimenti?
La grandezza del giovane misantropo Francesco De Gregori sta proprio in questo: farci riscoprire la pietas nel suo significato originale ed antico. Ci rende compassionevoli difronte alla caducità delle cose ed alla miserabile finitezza dell'essere umano. Lo fa in un modo sublime, nascondendo il significato della sua visione dei rapporti umani dietro il velo incantatore di una poesia che solo all'apparenza ci racconta qualcos'altro.
Come la Vergine delle Rocce, appunto.










lunedì 6 maggio 2013

Confessioni di un ex adolescente

"Oh adolescenti che non completate o addirittura neanche iniziate il faticoso percorso di distruzione dei genitori, ho una cosa da dirvi. 

"Ascoltatemi bene!
Quando sarete diventati adulti, i vostri genitori parleranno con la vostra bocca. Lo faranno in due modi alternativi: o dicendo le stesse cose che hanno sempre detto, oppure dicendo l'esatto contrario. 
Ma in ogni caso saranno loro a parlare, non voi. Ed il tempo per costruire finalmente una vostra voce sarà irrimediabilmente scaduto. 
Ragazzi miei, volete sapere come fare a distruggerli?
Scrivetemi in privato e vi insegnerò alcune preziosissime tecniche. 
Fate presto però!
Il tempo avanza inesorabilmente contro di voi". (autocitazione)

Gli anni del liceo non sono stati i migliori della mia vita. Quando avevo dodici anni, i miei compagni ne avevano quattordici. E quando ne ebbi quattordici, loro erano già arrivati a sedici.
Provai ad accelerare l'insorgere di certe attitudini e di certi bisogni sfidando la natura e gran parte delle convenzioni, ma finii dentro al paradosso di Zenone nelle vesti di Achille: per quanto arrivassi loro vicino, la matematica puntualmente mi negava il traguardo ricacciandomi nel bozzolo dell'inferioritá anagrafica. 
Infine capii che non sarei mai riuscito nel mio intento e pian piano sviluppai un paio di meccanismi di difesa piuttosto rudimentali e di segno opposto, l'umorismo e la presunzione: col primo attiravo, col secondo respingevo. 
Ancora oggi, nonostante la vita abbia provveduto da tempo a rimettermi in pari con gli altri, mi capita di far uso inconsapevole delle mie due antiche armi e sorridere nel vedere come qualcuno prenda tanto sul serio le mie intemperanze adolescenziali.

Mi sono soffermato sul mio disagio anagrafico senza far menzione delle persone che mi circondavano. 
La ragazza nella foto è Paola, una mia compagna di classe. Bella, vero?
Ci siamo ritrovati qualche tempo fa qui su Facebook dopo oltre trent'anni. 
Paola fu l'essenza stessa della mia adolescenza. 
Mi volteggiava intorno, inarrivabile e leggera, con la freschezza dei suoi sedici anni per me già così eccessivi, lasciandosi alle spalle la scia di stelle di Trilli Campanellino. Qualche volta mi si fermava davanti col sorriso più bello che conoscessi ed era lì, quasi a portata di mano, come per un bambino la luna grande e piena in certe notti d'estate. 
Paola era una delle ragazze più corteggiate della mia città ed io solo uno dei più piccoli, invisibili satelliti gravitanti dentro un'orbita oscura e lontana. 
Ancora oggi, tutte le volte che ci sentiamo al telefono per raccontarci le nostre piccole, simpatiche disavventure di adulti sposati, scafati, disillusi e magari un po' preoccupati per il futuro dei nostri figli, mi sembra di sentire attraverso le onde radio il magico suono che accompagnava la scia di stelle nella favola di Peter Pan.




Stanza 51 intervista Enzo Carella


Intervista ad Enzo Carella
stanza 51 - 17.01.2013
​Si può fare musica in tanti, tantissimi modi. Eppure, al di là degli stili personali, ogni epoca ci ha sempre regalato artisti di tendenza (moltissimi), artisti controcorrente (molti) e qualche artista di frontiera.

Quando si ripercorre con la memoria uno dei decenni più importanti della storia della musica - gli anni '70 - è facile riconoscere in personaggi come David Bowie e Lou Reed i cantori di un'epoca dominata dalla trasgressione, e nel movimento cosiddetto "progressive" il ritorno ad una dimensione individuale, soggettiva, dopo la sbornia sociale del decennio precedente. Accanto a questi fenomeni di tendenza, c'erano i paladini di una contro cultura - Frank Zappa su tutti - che indagavano l'universo musicale a 360 gradi e senza preconcetto alcuno,  dissacrando la cultura musicale dominante. C'era però qualcuno, qualche artista di frontiera appunto, che sembrava non appartenere né alla cultura musicale dominante né alla relativa contro cultura. In Italia, ad esempio, accanto alla schiera dei cantautori politicamente impegnati (maggioranza indiscussa) e ad una conseguente  contro cultura  del disimpegno che vide emergere interessanti fenomeni come ad esempio gli Skiantos e Franco Battiato, ci fu anche qualcuno difficile da inserire nell'una e nell'altra categoria. Penso a Lucio Battisti, ad esempio. E penso anche ad Enzo Carella. Artisti di frontiera, appunto, impossibili da etichettare.  Il primo baciato dal successo, il secondo no.
Proprio con Enzo Carella abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola sulla sua attività e sul mondo della musica in generale.


Stanza 51 - Un giorno Battisti affermò che sarebbe riuscito a fare hit a getto continuo ma che era arrivato il momento di sperimentare direzioni musicali diverse dalle solite. L'impressione che ho di Enzo Carella é che da subito abbia voluto rinunciare alla hit a tutti i costi in favore di una soluzione dal taglio pop-aristocratico. Sbaglio?

​Enzo Carella - No, non sbagli. Ho sempre fatto la musica che piaceva a me, magari sperando che il pubblico italiano si sarebbe evoluto.​

​Stanza 51 - Ieri sera, dopo molti anni, ho riascoltato Mare sopra e sotto e sono rimasto sorpreso dalla modernità del brano. Quanti e quali giovani musicisti di oggi pensi abbiano raccolto e fatto proprio quel messaggio musicale che lanciasti oltre trent'anni fa?
Enzo Carella - Pochi, molto pochi, perchè per fare un certo tipo di musica bisogna essere molto preparati, bisogna averla ascoltata per una vita, averla digerita ben bene per poi riproporla in modo personale.....Hanno fatto delle cover di mie canzoni....può essere un buon inizio.
Stanza 51 - Sebbene la tua carriera abbia avuto lunghe interruzioni, sono circa trentasei anni che fai musica. Ti va di segmentare il tuo percorso artistico e dare un nome alle diverse fasi?
Enzo Carella - L'ispirazione è sempre stata la stessa, è cambiata l'esecuzione a seconda dei musicisti che avevo a disposizione. Ad esempio i primi due dischi li ho fatti con i Goblin ed avevano una connotazione rock progressive funky, musica che piaceva a tutti noi. Poi il terzo, Sfinge ,prodotto da Elio D'anna,sax degli Osanna, era suonato da tre musicisti napoletani più un inglese ed aveva un taglio più mediterraneo. Il quarto ed il quinto, rispettivamente De Carellis e Se non cantassi sarei nessuno, sono stati fatti quasi in casa, sempre con bravi musicisti, ma ho suonato molto io, dalle chitarre alle tastiere.
Stanza 51 - Ti é mai capitato di pensare che l'indissolubiltà del rapporto con Panella possa aver fatto da freno alla conquista di un successo commerciale?

​Enzo Carella - All'inizio forse è stato così, la gente non capiva quello che scriveva e non lo accettava. Ma a me, nonostante le pressioni della casa discografica, è sempre piaciuto e me lo sono tenuto stretto.

​Stanza 51 - È facile riconoscere le influenze musicali di molti dei nostri cantautori classici. Quando invece penso alla discografia di Enzo Carella, stento a trovare riferimenti precisi. Ci sveli le tue fonti d'ispirazione?
Enzo Carella - Blues, rock, progressive, funky, jazz, latino, musica italiana.

Stanza 51 - Sono passati alcuni anni dal tuo ultimo lavoro in sala d'incisione. Cosa sta facendo in questo periodo Enzo Carella?

​Enzo Carella - La passione per la musica non se ne andrà mai, perciò, per divertimento continuo a comporre canzoni anche se purtroppo i dischi non si possono fare più....Se sarà possibile cercherò di fare delle serate in tutta italia, sperando che ci sarà abbastanza gente che mi verrà a vedere.

​Stanza 51 - Ho letto da qualche parte che consideri Jimi Hendrix un grandissimo artista ma che altrettanto non puoi dire di Bruce Springsteen. Premesso che condivido in pieno la tua affermazione, ci vuoi spiegare bene la differenza qualitativa che passa tra queste due stelle del rock?

​Enzo Carella - Ho conosciuto la musica di Hendrix quando avevo 14 anni....Il suo modo unico di suonare la chitarra mi ha sconvolto la vita e le sue canzoni mi hanno fatto impazzire. Aveva uno stile personalissimo ed era un grande innovatore e sperimentatore. L'ho visto due volte dal vivo, nel '67 o '68 al teatro Brancacciodi Roma e nel 70 all'isola di Wight....Quando morì ero ancora a londra....Era il mio idolo. Springsteen non mi ha fatto nè caldo nè freddo. In musica, come in tutte le cose, è questione di gusti. Sicuramente sarà un grande artista ma non l'ho seguito per niente, lo conosco appena.

​Stanza 51 - Dipingi ancora? Hai mai pensato alla realizzazione di un progetto multimediale che rappresenti in pieno la tua poliedricità?

​Enzo Carella - Ho lasciato perdere i pennelli. Mi sporco tutto e rovino i muri di casa. Mi piace disegnare ogni tanto,ma finisce lì.

​Stanza 51 - Cosa pensi dell'idea del sito Stanza 51 di ripercorrere la storia del Rock in tempo reale, giorno dopo giorno, come se oggi fossimo ancora agli inizi del 1967?
Enzo Carella - Quando si parla di rock c'è la mia totale approvazione. Mi sembra un'ottima idea.
Stanza 51 - Cosa si sente di dire oggi Enzo Carella ai suoi fans (che non saranno moltissimi ma sono senz'altro dei palati musicalmente fini)?

​Enzo Carella - Come disse Carlo Verdone in uno dei suoi primi film,solo tre parole: "lov lov lov". CIAO!

venerdì 14 settembre 2012

Merit da dieci


Oggi le strade sono stranamente deserte. Non funzionano neanche i semafori. In fase di accensione la mia auto fa fatica a passare a metano e sono costretto a consumare quel po' di benzina rimasta nel serbatoio. Con la mano destra cerco invano l'accendino nella tasca dei pantaloni, mentre con la sinistra affronto la rotonda sotto casa, quella che consente l'immissione sulla strada senza fine che conduce al mio ufficio. Ho bisogno di fumare. Lo faccio sempre dopo l'ultimo caffè bevuto a casa in fretta e con le chiavi della macchina già in mano. Non ho l'accendino e questo è un problema. Accelero e vedo sfilare i marciapiedi vuoti alla mia destra. Anche a sinistra è così. I negozi sono chiusi. La voglia di fumare si trasforma in bisogno improrogabile. Ad un tratto vedo l'insegna luminosa della T. Inchiodo. Vuoi vedere che la tabaccaia moldava oggi mi salva? E' aperto. Saluto. Lei ricambia con un sorriso. Mi dà un accendino? Mi volta le spalle, ne prende uno giallo. Un euro, mi fa. Estraggo il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Cristo, è vuoto!  Non ci sono bancomat nei dintorni. Ansia. Son rimasto senza soldi. Mi fa accendere? faccio. Non si può fumare qui dentro, ribatte. La guardo stupito. Me lo presti, per favore. Esco, accendo la sigaretta e poi glielo lancio all'interno. La Moldava mi guarda, aggrotta le sopracciglia, si siede. Non fumo, mi fa. Non sono mai uscito soddisfatto da quel negozio. Nella migliore delle ipotesi mi danno le Merit da dieci. Più spesso non hanno neanche quelle. Esco senza salutare, accendo il motore e riparto. Il cielo è coperto, le strade vuote, non c'è anima viva in giro. Davanti a me, a circa mille metri di distanza, si alza una cappa di fumo nero. E' proprio nei paraggi della mia destinazione. Oltrepasso l'asilo di mia figlia costeggiando la ferrovia. La nube nera si fa sempre  più grande. Comincio a sentirne l'odore, acre e pesante. Ormai ci sono. Il mio ufficio sta bruciando. Lascio la macchina fuori dal parcheggio e mi avvicino all'incendio con la sigaretta spenta in bocca.

giovedì 13 settembre 2012

Quando ho fermato mia madre?

La mia memoria si comporta in modo diverso con il passato prossimo e con quello remoto: il primo me lo restituisce in forma di videoclip, col secondo ricorre all'immagine fotografica.
Le persone e gli eventi del mio passato remoto sono crisalidi in un bozzolo, non sono fossili. Il tempo trascorso li ha fermati, scolpiti.  Ma non li ha uccisi, tutt'altro. Li ha ibernati e protetti in un involucro adatto a custodire la vita, una membrana pulsante che sovraintende all'osmosi. 
Se fisso a lungo una parete bianca, questa pian piano diventa uno schermo. Una alla volta, come vecchie diapositive, le crisalidi della mia memoria sfilano con lentezza. Sono legate da un filo invisibile, e viste così - l'una rincorrere l'altra senza mai afferrarla - producono la magia fotografica dei piani anti-narrativi dei film di David Lynch, uno capace di far vedere crisalidi addirittura in azione. Le mie invece solo solo fotografie, alcune a colori, altre no. Alcune utilizzano i piani americani, altre i piani medi. Raramente vedo figure intere o primi piani. Non so perché. Non è però questa la domanda alla quale vorrei poter dare con maggior urgenza una risposta. E neanche quella che riguarda il legame tra una diapositiva e l'altra. Non m'interessano le letture razionali quando il soggetto si fa beffe della ragione: trovate consono vestirvi da sciatori per andare in barca a vela? La domanda che mi faccio è di tutt'altro tipo. Qual è il momento esatto in cui il nostro passato da prossimo si fa remoto? Quando il videoclip diventa fotografia?
Cos'è successo nella mia vita nel lasso di tempo intercorso tra il ricordo di mia madre in movimento e quello in cui ha cominciato ad apparirmi, ad esempio, seduta immobile e sorridente in un'inquadratura priva della profondità di campo?
Quale momento della mia vita ha fatto di mia madre una fotografia?



sabato 8 settembre 2012

Frammenti di Shelsh

Ero disteso su un prato. L’erba, più verde del solito, emanava un irresistibile profumo di tempi lontani. Dal ramo di un faggio pioveva rugiada sul palmo della mia mano sinistra. Nella destra stringevo una piccola margherita dai petali avvizziti. Poco più in là, un uomo con gli occhiali sfogliava lentamente la sua margherita. Lanciava i petali in favore di vento in modo che questi descrivessero una lunga traiettoria uniforme, per poi scomparire oltre il terrapieno che m’impediva di abbracciare il restante paesaggio.
Il cinguettio di un uccello fu a poco a poco cancellato da un rumore meccanico. Dalla sommità del terrapieno vidi spuntare una ruspa. Procedeva adagio nella mia direzione e, nell’istante in cui mi passò accanto, notai che trasportava una massa di carta straccia. L’accompagnai con lo sguardo finché non si eclissò in un punto fuori della mia portata. Allora mi voltai verso l’uomo che avevo di fianco. Era ancora lì con gli occhiali sul naso ed i suoi gesti lenti. In mano la margherita aveva lasciato il posto a un quaderno da cui l’uomo ogni tanto staccava un foglio, ne prendeva un’estremità fra due dita, poi allentava la presa e lasciava che il vento lo dirottasse oltre il terrapieno. Ipnotizzato dal ripetersi dell'azione e dalla condotta neutrale dell’uomo, restai in muta osservazione. Finché, dalla cima del terrapieno, emerse un’altra ruspa molto simile alla precedente - forse la stessa - col medesimo carico ed identica rotta. Ancora una volta la seguii con gli occhi fino a perderla nel medesimo punto. Di nuovo cercai l’uomo e lo trovai ancora lì con la sua margherita. La scena si ripeté all’infinito con una circolarità che sarebbe stata perfetta senza l’avvicendarsi del quaderno e del fiore.
Mi svegliai di colpo in questa minuscola stanza che sa di palude lontana e profonda. Riconobbi il perimetro che aveva ospitato la fisicità dei miei peccati, svuotato di tutto, bianco e pianeggiante come un sottile strato di neve sul bagnasciuga, come un pavimento di marmo appena levigato, come una pagina bianca senza increspature.

mercoledì 5 settembre 2012

Con Sergio, a metà del vagone

La mia casa aveva un lungo corridoio. 
Sembrava il vagone di un treno. 
Entravi e sentivi ciuf ciuf, ma era il suono ovattato dei motori che trovava un varco nelle finestre semiaperte della sala, il primo scompartimento a sinistra. 
Era raro che fossero chiuse perchè la città in cui vivevo aveva un clima mite anche in inverno. 
E poi mio padre e mia madre fumavano ed io con loro, anche se a quell'epoca nessuno dei tre lo sospettava. 
Più tardi, da adulto, quando anch'io mi presi quel vizio, cominciai a chiedermi come facessero i miei a cambiare continuamente marca. Un giorno mio padre spegneva cicche dal filtro bianco, il giorno dopo rosso, quell'altro ancora non c'erano più filtri nel posacenere ma mozziconi che mi davano il senso dell'incompiuto. 
Anche mia madre era così. Fumava meno ma era incostante anche lei. 
Io sono sempre rimasto fedele alle Merit, così come a tutte le cose e alle persone della mia vita. E' la mia indole. 
Quale indole nascondeva la volubilità dei miei riguardo al fumo?
Poco più avanti, sulla destra, c'era la cucina. Era grande abbastanza per mangiare ed anche per giocarci e - a volte - addirittura per studiare, tra i profumi del sugo e gli aromi del caffè da poco consumato.
A metà circa del vagone c'erano le due camere da letto, la mia e quella dei miei. Una difronte all'altra.
Nella mia camera c'era un pianoforte Hoffberg marrone, con sopra - al centro esatto - un piccolo busto di Beethoven regalatomi dalla mia insegnante di musica, Eleonora.
Io andavo a casa di Eleonora due volte alla settimana. 
Aveva due figli, Maria Luisa e Giorgio. 
Giorgio aveva dieci anni ed era più grande di me ma diventammo subito molto amici. 
Io arrivavo a casa sua con mezz'ora d'anticipo. Andavamo nella sua stanza e giocavamo a calcio spaccando tutto. La storia si ripetè per circa tre anni, sempre così. Sempre uguale a se stessa.
Poi Eleonora morì. 
Morì a causa di un'operazione banale che l'avrebbe dovuta costringere ad una degenza di due giorni al massimo. Mi disse: Martedi non facciamo lezione perchè mi devo operare. Riprendiamo venerdi. Così , almeno per qualche giorno, non mi distruggete la casa.
Tutto finito. Chiuso. Game over.
Il mio pianoforte marrone lo chiusi a chiave. La chiave la riposi nel cassetto della mia piccola scrivania da bambino. La chiave del cassetto la persi ma non mi affannai più di tanto a cercarla. 
Forse era giusto così.
L'appartamento difronte al mio era abitato da due brave persone. 
Avevano quattro figli, tutti molto più grandi di me. I tre maschi vivevano altrove per via degli impegni universitari. Lina invece c'era. Anche lei studiava pianoforte e ne aveva uno nero in casa. Ogni tanto sentivo i suoi esercizi, le scale cromatiche e quelle naturali. Sentivo tutto nitidamente perchè - sapete - le porte d'ingresso dei due appartamenti erano quasi sempre aperte ed era come vivere in un unica, enorme casa.
Tutti noi - la mia famiglia e la loro - si andava avanti e indietro all'interno di quest'unico, smisurato spazio.
"Avete già fatto il caffè? Allora vengo a prenderlo da voi" era una delle frasi più gettonate. Massimo, da noi è già pronto. Vieni a mangiare qui?, un'altra hit.
Un giorno, mentre mi trovavo nella mia camera, sentii le note del pianoforte di Lina e smisi subito di giocare.
Misi la testa fuori dalla stanza e tesi l'orecchio in direzione del suono.
Le mani di Lina non avevano mai prodotto quei suoni. E neanche le mie, per la verità. 
Chi diavolo era?
Percorsi il corridoio, attraversai il pianerottolo ed entrai nella prima stanza a destra del "mio" secondo appartamento.
Seduto al pianoforte c'era un ragazzo alto, magro e con tanti riccioli, che suonava senza spartito.
Neanche si accorse di me.
Io me ne stavo lì. Con lo sguardo ammirato osservavo quelle mani lunghe e affusolate - quelle che madre natura a me non aveva concesso - muoversi con la rapidità del lampo, generando qualcosa che assomigliava ad onde d'avorio con le loro conseguenti risacche.
Si chiamava Sergio ed era il cugino di Lina.
Sergio aveva qualche anno più di me ed un viso sorridente e sognante.
Io avevo soggezione di Sergio, come l'avrebbe avuta ogni bambino smanioso di suonare in quel modo più di ogni altra cosa al mondo ed aveva invece abbandonato gli studi per confrontarsi per la prima volta con l'idea della morte.
Diventammo amici lo stesso. I ragazzi si annusano e si piacciono comunque, lasciano fuori le proiezioni simboliche tanto care al mondo degli adulti, quelle che stoppano sul nascere ogni barlume di relazione.
Sergio cominciò ad attraversare con una certa frequenza il corridoio di casa mia per arrivare nella stanza del vecchio pianoforte marrone. 
Io, nel frattempo, ero riuscito a forzare la serratura e a riaprirlo. 
Quando arrivava il ricciolino per me era una festa. Mi parlava di una musica che io non avevo mai ascoltato, carica di antiche leggende e di simboli misteriosi. Me la faceva ascoltare sul mio pianoforte e così, pian piano, anch'io ricominciai ad appoggiarci le mani. Quando lui non c'era.
Sono trascorsi alcuni decenni da allora.
Sergio è diventato giustamente famoso. Non ci sono più mio padre e mia madre né i genitori di Lina. Non c'è più Eleonora ed ho di recente saputo che è scomparso anche Giorgio, suo figlio, compagno di mille distruzioni.
Non c'è più neanche il mio vecchio pianoforte marrone. 
Quando due anni fa morì mia madre, non volli più toccare e vedere nulla delle cose che potessero suscitarmi un ricordo.
Il vecchio pianoforte giace in un ignoto scantinato del padrone di casa di mia madre. Chissà cosa penserà di quella serratura rotta e di una chiave che non esiste.
Pensate che con un po' d'immaginazione riuscirebbe a scoprire l'arcano?