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mercoledì 12 settembre 2012

PETER GABRIEL II - Peter Gabriel (voto: 6,5)

Il secondo numero della rivista Peter Gabriel esce nel 1978, ad un solo anno di distanza dal primo.
Il volto in copertina, marchio di fabbrica del nuovo Gabriel, mostra due sfregi che tutto sommato non alterano la fisionomia dell'autore. Quel che però conta è che - a differenza del primo album - qui c'è un tentativo di alterazione: se lì la pioggia  ed un riflesso sul parabrezza nascondevano più che alterare, qui è evidente il l'intento (non realizzato) di deformare. La progressione, splendida e simbolica, proseguirà nel terzo lavoro e culminerà nel quarto, dove l'irriconoscibilità del volto sarà assoluta. L'interpretazione delle copertine dei primi quattro album è utilissima per stabilire l'impressione che l'autore ha di se stesso con riferimento alla sua evoluzione musicale, un'interpretazione largamente condivisa dal suo pubblico e dalla critica in generale. Se il volto naturale del primo disco riflette la componente autobiografica e solare di Solsbury Hill, il tentativo di sfregio presente nel secondo richiama Exposure, composta con Robert Fripp, che è anche il produttore del disco.
Volendo insistere sull'aspetto dell'evoluzione musicale dell'artista, è proprio su Exposure che dobbiamo focalizzare l'attenzione. La ripetizione produce variazione sembra essere il nuovo Credo di Gabrial, un loop musicale e verbale figlio della fascinazione minimalista che in futuro toccherà i suoi vertici con Intruder, Milgram's 37 e - perché no - Fourteen Black Paintings
Se invece guardiamo all'album in sé, come semplice raccolta di brani, non possiamo non notare due splendide appendici intimiste di Here comes the flood: Indigo e Mother of Violence.
La prima si apre con la voce di Gabriel, riflessiva e triste, subito seguita da pochi, essenziali accordi di pianoforte.

E' troppo tardi. Questo modello è scaduto.
Ho con me tutti i pezzi di ricambio, ma non c'è più molto cuore qua dentro.
Non è più come una volta. Ero bravo nell'arte di sopravvivere.
Ho sempre cercato di tenere segrete tutte le mie preoccupazioni.
Dove posso occultarle ora? Sono completamente privo di nascondigli

Questi primi versi introducono ad una riflessione sulla vita che sta per finire. Alla morte ci si avvicina nudi, senza difese. L'ironia però non manca

Going to cross the dark dark river
Going to see my good life-giver
Better cover my yellow liver

Quasi una filastrocca nell'avvicinamento a Dio, difronte al quale è meglio coprire il mio fegato giallo.

Mother of Violence è invece un'accattivante e dolcissima nenia scritta a quattro mani con la (ex) moglie Jill.
In questo brano l'arrangiamento, essenziale e delicato, si fonde alla perfezione con la struttura della musica e del testo. C'è tutto il Gabriel riflessivo ed assolutorio: la paura è la madre di ogni violenza in un mondo in cui si fa fatica a respirare, un mondo in cui ogni dato è racchiuso in un microfilm.

Il resto dell'album è a mio avviso rovinato dall'invasività di Fripp: brani come White Shadow e Home sweet Home, così cariche di effetti orpellistici, avrebbero meritato miglior sorte in sede di arrangiamento. D.I.Y. ha una ritmica accattivante e rappresenta in pieno l'urgenza di Gabriel di voler andare avanti da solo, senza cioè sottostare a principi democratici in un contesto come quello creativo che ha invece bisogno di logiche dittatoriali.
Perspective , What a wonderful day in a one-way world e Animal Magic sono, a mio avviso, tre brani inutili. Flotsam and Jetsam è invece un piccolo capolavoro di sintesi musicale in cui il canto, stridulo ed inquieto, ben evidenzia il malessere esistenziale di cui il testo è impregnato.
Su On the Air, il brano che nelle intenzioni di Gabriel avrebbe dovuto fare da apripista alla saga di Mozo, lo straniero venuto da Mercurio, concedetemi una digressione del tutto personale.
Il brano è carico di energia ed è l'unico - forse - a mettere in rilievo la bravura dei musicisti presenti: Roy Bittan alle tastiere, Tony Levin al basso, Sid McGinnis alla chitarra elettrica, Jerry Marotta alla batteria, Larry Fast al synth.
E' proprio del synth di Fast, della sua straordinaria apertura che voglio parlare.
In altra sede (http://stanzacinquantuno.blogspot.it/2012/04/vietri-sul-mare-ed-il-computer.html)  - ho avuto modo di citare indirettamente il synth di On yhe air per la lucentezza quasi palpabile e capace di agire a livello subliminale. So che si tratta di un'esperienza personalissima e difficilmente estendibile, pertanto vi prego di prenderla per quello che è.
Nel complesso l'album è di transizione verso i lidi più nobili rappresentati dal terzo e quarto Gabriel. Resta però uno snodo importante nella carriera di Peter, un punto di rottura definitivo con l'esperienza-Genesis, un eterogeneo contenitore di bigiotteria spicciola e di preziosi gioielli.

giovedì 6 settembre 2012

PETER GABRIEL I - Peter Gabriel (voto 6,5)

Nel 1977, in occasione dell'uscita di questo suo primo lavoro solistico, Peter Gabriel dichiarò tra il serio e il faceto che gli sarebbe piaciuto ripetere l'esperimento della sua faccia in copertina anche per i lavori futuri. "Per i fans sarà come andare a comprare l'ultimo numero della loro rivista preferita. Solo che in copertina ci sarò sempre io".
Naturalmente nessuno gli diede retta.
Chi conosce la carriera di Gabriel sa infatti benissimo che il suo coefficiente di realizzazione dei progetti non va oltre lo 0,01: di cento idee ne realizza infatti una al massimo. Quando lasciò i Genesis - ad esempio  - dichiarò che da lì a qualche giorno si sarebbe dato al cinema. Jodorowsky è ancora lì che lo aspetta per il film su Rael. Nel '78 assicurò che era ormai pronta la sceneggiatura di Mozo, un alieno che aveva fatto timidamente capolino dal suo secondo album. Da allora nessuno ne ha mai più sentito parlare.
Invece, contro ogni previsione, tra il 1977 e il 1982 uscirono effettivamente quattro album con la faccia del Nostro puntualmente in copertina. E perfino senza titolo, a rafforzare l'idea di base del magazine.   Il Grande Pigro, il Plantigrado del rock aveva incredibilmete mantenuto la sua promessa.
Peter Gabriel 1 è un disco pieno di contraddizioni. Si percepisce sì l'intento di tagliare il cordone ombelicale che lo lega al gruppo ma anche l'enorme difficoltà del distacco. Tutti i brani escono dalla forma suite e tornano alla durata classica della canzone ante-progressive. La più lunga - Waiting for the Big One, un blues cantato con una voce da marinaio ubriaco - dura sette minuti e quindici. La più breve - Excuse me- , si ferma a tre minuti e venti. Il legame ancora presente con i vecchi Genesis è però evidente nel brano d'apertura Moribund The Burgermeister, sia per la raffinatezza dell'ambientazione letteraria (in un'era imprecisata un borgomastro cerca l'aiuto dei musicisti per sedare il ballo di San Vito che sta affliggendo la popolazione) sia per la varietà dei registri della voce di Gabriel:  un saliscendi continuo dagli acuti puri  fino alle tonalità più cavernose che per certi versi riporta a Get'em out by Friday di Foxtrot.
Gabriel sciorina una serie di generi musicali tutti diversi tra loro. C'è il folck-rock in 7/4 di Solsbury Hill in cui l'autore spiega i motivi dell'abbandono dei Genesis, il barbershop quartet di Excuse me, il rock "a la Bowie" di Modern Love, perfino la deriva dance di Down the Dolce Vita. Anche la scelta dei musicisti sembra rispettare il diktat del taglio netto col passato: Tony Levin al basso, Larry Fast ai synth, Robert Fripp alla chitarra contribuiscono alla confezione di un prodotto sufficientemente nuovo rispetto ai vecchi standard genesiani.
Tutto qua?
No, affatto. Humdrum è un piccolo capolavoro di musica e testo. Nasce da poche note di piano a supporto dei tre versi iniziali sull'amore finito scritti da Gabriel  con la solita intelligente ironia, sfocia in un mare musicale aperto e sinfonico in cui il significato delle parole si fa oscuro ed astratto, si ferma bruscamente senza rispettare lo stereotipo del ritorno alla strofa musicale iniziale. Ci lascia lì, insomma - stupiti ed istintivamente delusi - a fare i conti con quelle ultime due parole in tedesco (liebe schön) dopo un intero testo scritto in inglese.
C'è poi un brano che da solo riscatta le evidenti contraddizioni artistiche che fanno di PG1 non il capolavoro assoluto di Peter Gabriel: si chiama Here comes the Flood e merita una considerazione a parte.
Era già capitato con Last trip to Tulsa di Neil Young che un'opera prima si chiudesse con un brano leggendario al termine di una sequenza di tracce affatto memorabili. Intendiamoci, la qualità complessiva di Pg1 è superiore all'album di esordio di Young. Non ha però l'omogeneità né la maturità che troveremo più avanti in PG3 e PG4.
Quando nel già citato Waiting for the the Big One il canto del marinaio ubriaco svanisce e si respira l'ineluttabilità dell'arrivo del grande terremoto, ecco che invece arriva il diluvio - Here comes the flood - per l'appunto. Intelligenza, ironia e sarcasmo gabrielliani sono in questo caso visibili perfino nello spazio vuoto che separa i due brani.
Nonostante la pesantezza dell'arrangiamento (si fa preferire di gran lunga la versione più essenziale presente nell'album di Robert Fripp) i crismi del capolavoro sono presenti sin dal primo verso

When the night shows, the signals grow, on radios
All the strange things, they come and go, as early warnings

L'abilità compositiva di Gabriel sta nel raccontare una sensazione ultra-soggettiva con un livello di efficacia tale da farcela vivere come un "universale": nei due versi appena citati l'arrivo della sera si percepisce non dal progressivo accendersi delle luci artificiali nelle case e nelle strade (come a tutti noi verrebbe da pensare) ma dall'aumento del numero dei segnali e delle frequenze radio occupate.
Dal punto di vista musicale il brano è una ballata lenta ed intimista e la voce di Gabriel di un'intensità drammatica davvero notevole.
Per un paio di decenni l'artista ha chiuso i suoi concerti da solo al piano con questa canzone, cogliendo spesso in contropiede gli spettatori che avevano già cominciato a sfollare. In uno dei suoi ultimi tour è stato invece il brano d'apertura, un modo tutto gabrielliano di dire al suo pubblico: ricominciamo da dov'eravamo rimasti.