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giovedì 13 giugno 2024

EGE BAMYASI - CAN (voto: 8,5)



Se in gioventù avessi iniziato ad ascoltare i CAN partendo da Tago Mago, probabilmente la mia avventura col gruppo tedesco e col kraut rock tutto si sarebbe conclusa lì: troppo sperimentale, perfino eccessivo nella sua originalità. Invece ebbi la fortuna di imbattermi prima in questo disco rimanendone folgorato, e solo allora, con accresciuta consapevolezza, arrivai ad affrontare quello scoglio. E sì, perché Ege Bamyasi è un disco meno sperimentale di Tago Mago, adatto perfino alle orecchie immature di un adolescente che aveva comunque già conosciuto le complesse sonorità della scena di Canterbury.
I CAN erano quattro ragazzi tedeschi imparentati a vario titolo col variopinto mondo delle avanguardie di fine anni sessanta: il bassista Holger Czukay ed il pianista Irmin Schmidt furono allievi di Stockhausen; il batterista Janik Liebezeit veniva dal jazz, il chitarrista Michael Karoli fu a sua volta allievo di Czukay, mentre il cantante Malcom Mooney veniva addirittura dal mondo delle arti figurative. I fermenti, nella Germania del kraut rock, erano perfetti per costituire un ensemble e tentare di mettere al servizio dell’arte un così alto concentrato di conoscenze tecniche.
I primi dischi, soprattutto il già citato Tago Mago uscito nel 1971, confermarono che il gruppo era di livello superiore, sia per tecnica che per creatività. La loro proposta era un originale mix di musica da camera, sperimentazione elettronica, rock, jazz e funky. Non era, come già accennato, musica per tutti; finché nel 1972 fu pubblicato Ege Bamyasi, con in copertina un barattolo di ortaggi turchi (il pessimo gombo dell’Egeo) che faceva il verso alla lattina della Campbell di Andy Warhol.
Non ascoltavo Ege Bamyasi da tantissimi anni finché stamattina, approfittando di un lungo tragitto in macchina, ho deciso di interrompere l’astinenza e di riaccostarmi a questo disco che determinò in modo prepotente il corso dei miei gusti musicali.
Da Pinch a Spoon, che fu anche un incredibile successo commerciale (erano altri tempi, la musica era ancora una cosa seria), passando per la lunga suite Soup piena di break e di ripartenze, il disco continua a suonare in modo meravigliosamente moderno, ed è divertente rintracciare nei suoi solchi i semi delle tendenze sviluppatesi nei decenni successivi. Penso soprattutto al trip hop dei Massive Attack (in particolar modo a Protection e Mezzanine) per le atmosfere intrise di ritmiche ossessive e bisbigli elettronici; penso perfino ai Sonic Youth per il modo tutto particolare di distorcere il suono dell’elettrica (sembra che Thurston Moore abbia divorato i CAN a colazione, pranzo e cena); penso alle nostre avanguardie pop dell’epoca, in particolare agli Area; penso ai Radiohead, a certo punk e post punk avanguardistici; penso alla no wave newyorkese ed in particolare alla chitarra stralunata e nevrotica di Arto Lindsay. Penso a tutto questo e mi chiedo cosa aspettiate ad ascoltare la musica dei Can. La loro è una musica elegante e senza tempo, come elegante e senza tempo è ad esempio il design industriale tedesco: freddo e caldo nello stesso tempo, preciso e tagliente come il math rock emerso nel corso degli anni ottanta, a cui però mancavano un cuore ed un’anima pulsanti.
Partite da Ege Bamyasi e poi non fermatevi più. 


lunedì 3 giugno 2024

Unrest - Henry Cow (voto: 8)


È lecito chiedersi cosa c’entrino gli Henry Cow col rock? Credo che la giusta risposta sia: dipende da cosa intendiamo con la parola rock. In un’accezione molto restrittiva del termine, quella che lo considera una semplice abbreviazione di rock’n’roll, allora il gruppo di Cambridge (come del resto una grandissima quantità di musica ed artisti emersi dalla seconda metà degli anni sessanta in poi) ne è distante anni luce. Se invece, molto più opportunamente, attribuiamo alla parola rock il significato quasi filosofico di rottura degli schemi e conseguente superamento degli stessi, ecco che allora gli Henry Cow ed interi movimenti musicali che vanno dall’elettronica pura al jazz, dalla sperimentazione avanguardistica al ripensamento delle strutture classiche, ne fanno parte a pieno titolo.
È comunque inutile nascondersi, gli Henry Cow sono l’estrema periferia del rock; una periferia lontanissima dal centro nevralgico di quella scena musicale che, nel momento in cui si formarono, viveva la più grande rivoluzione artistica del XX secolo. Racconta Chris Cutler, il batterista della band, che gli Henry Cow devono indirettamente la loro nascita ai Pink Floyd, il gruppo che verso la fine degli anni sessanta dimostrò che era possibile fare musica mantenendo il pubblico con le terga incollate alla sedia. Se il gruppo di Barrett e Waters era riuscito nell’impresa, perché non provare ad emularli? Le acque musicali in cui nuotavano gli Henry Cow erano però molto meno tranquille di quelle floydiane: erano le acque turbolente del free jazz, dell’elettronica e delle avanguardie dissonanti. Così il gruppo dovette aspettare diversi anni prima di incidere un disco e porsi all’attenzione di un pubblico finalmente maturo.
Fu comunque la scena di Canterbury, molto più di quella psichedelica e dello space-rock, a spianare la strada al percorso artistico del quintetto di Cambridge. I Soft Machine di Robert Wyatt avevano infatti già sfornato tutti i loro capolavori quando gli Henry Cow incisero nel 1973 Leg end, il loro primo disco in cui domina, insieme alle già citate influenze canterburiane, l’elemento bandistico e dissacratorio di Zappa.
Il loro secondo disco Unrest, uscito l’anno successivo, non fa altro che cementare e portare a maturazione le intuizioni del primo.
Il violino di Fred Frith, l’organo di Tim Hodgkinson, il basso di John Greaves e la batteria di Chris Cutler costituiscono il nocciolo duro di una formazione che ha annoverato nel corso degli anni una miriade di musicisti tra cui spiccano anche i nomi di Mike Oldield e del padre putativo Robert Wyatt.
Unrest parte con un brano che serve a depistare l’ascoltatore: Bittern storm over hulm è infatti un piccolo ed accattivante gioiello di jazz rock in cui la sezione ritmica sostiene la chitarra di Frith a metà strada fra l’assolo zappiano e quello che sarà un domani il cocainico modus operandi di Adrian Belew. Half asleep: half awake, con il suo introduttivo e sognante piano jazz, ci catapulta in una jam dominata prima dai fiati, poi dalle tastiere, poi da entrambi. La coesione degli strumenti è appesa ad un filo sottilissimo che sembra sempre sul punto di spezzarsi per sconfinare in territori cacofonici, ma si salva ripetutamente e miracolosamente fino a riportarci da dover eravamo partiti, cioè a quel piano jazz che in solitaria tesse di nuovo una trama d’incanto. Ruins è una lunga suite aperta dai fiati e portata avanti da un intreccio musicale in cui la presenza del vibrafono rimanda allo Zappa più sperimentale. Il brano evolve mettendo in evidenza la chitarra distorta di Frith e gli accordi minimali del piano, per poi proseguire in chiave cameristica con gli archi a farla da padrone. Gli elementi più caratteristici della dodecafonia del XX secolo trovano qui uno spazio espressivo che nessun altro, in territorio rock, aveva forse sino ad allora osato tenere aperto. Il tema dodecafonico e l’uso delle dissonanze è ripreso ed esasperato in Linguaphonie che, per forza di cose, si candida ad essere il brano più sperimentale in assoluto dell’intero album, oltre che a far da naturale apripista ai tre pezzi conclusivi Upon entering the hotel Adlon, Arcades e Deluge, dove ormai ogni centro tonale è scomparso e la musica sembra permeata da un ideale e definitivo clima di straniamento.
Ascoltare oggi gli Henry Cow significa soprattutto rimettersi in contatto con una stagione musicale che rese necessario ai giovani di allora (io tra questi) l’uso di un paio di orecchie nuove e la voglia di trascendere la limitatezza degli standard della musica giovanile conosciuti fino ad allora.
La speranza è che nulla sia andato perduto per sempre.


mercoledì 29 maggio 2024

Tanz der Lemminge - Amoon Düül II (voto: 7,5)


Ammetto di essere fortemente in imbarazzo nel parlare di questo doppio album del 1971. Lo sono per una serie di buoni motivi: il primo riguarda la scarsa popolarità di cui la band gode al di fuori della cerchia ristretta dei suoi cultori; il secondo è di natura geografica, in quanto  la Germania ed il suo Kraut Rock sono sempre stati molto lontani dai cromosomi musicali italici, evidentemente molto più ricettivi e benevoli nei confronti del coevo prog di matrice inglese (e qui si potrebbe aprire un dibattito sulle ragioni storiche di questo diverso trattamento); il terzo motivo, meno generalista dei precedenti, ha a che fare con la mia soggettività che da sempre ha preferito questo terzo album della band al molto più celebrato secondo lavoro, Yeti. Sarà dunque bene fare un po’ di chiarezza innanzitutto su cosa sia il Kraut Rock, spendere poi qualche parola sugli Amon Duul II e solo allora inoltrarmi nei meandri più nascosti di questo specifico ed un po’ bistrattato disco.
Verso la fine degli anni sessanta i giovani tedeschi vissero una fase di ripensamento delle proprie radici culturali, cercando risposte adeguate alle ragioni che avevano determinato le nefaste imprese della generazione che li aveva preceduti. In questo clima di pesante autocritica nacquero movimenti artistici che non potevano non ergere a bandiere della propria identità la rottura con gli schemi del passato, la totale libertà espressiva ed un fortissimo desiderio di sperimentazione. Nacquero così sia il “nuovo cinema tedesco” dissacratorio e sperimentale di Fassbinder, Herzog e Wenders, sia appunto il Kraut Rock.
Il movimento, di cui gli esponenti principali e più noti furono i Faust, i Tangerine dream ed i Kraftwerk, ha molteplici anime ed altrettanti connotati stilistici che vanno dal funky alla musica elettronica, dal garage rock al jazz e all’avanguardia sperimentale. L’appellativo dispregiativo Kraut, partorito dalla stampa specializzata inglese (sempre pronta ad etichettare e soprattutto a denigrare tutto ciò che esula dal regno di Sua Maestà) , accomunò questa variegatissima pletora di artisti, non rendendo affatto un buon servigio a tutti coloro che erano disposti a comprendere il fenomeno.
E veniamo agli Amon Düül II, oggetto di questo scritto, ed alla loro parabola musicale che parte dal 1969 (anno in cui realizzano il loro primo album, Phallus Dei), passa attraverso la realizzazione di Yeti e di Tanz der Lemminge nei due anni successivi, e si conclude con Carnival of Babylon e Wolf city nel 1972. In verità gli Amon continueranno ad incidere dischi fino agli anni novanta, ma senza sussulti artistici degni di nota.
I componenti del gruppo, all’epoca della realizzazione di Tanz der Lemminge, erano Chris Karrer, Peter Leopold, Ulrich Leopold, Falk Rogner e John Weinzierl. Il successo di critica del lavoro precedente Yeti risalente al 1970, un doppio album anch’esso, mise le ali alla creatività del quintetto. Ne venne fuori un disco estremamente composito e ricco di tutti gli elementi distintivi del Kraut: la suite iniziale Syntelman's March of the Roaring Seventies, della durata complessiva di circa quindici minuti, è suddivisa in quattro movimenti, ciascuno con caratteristiche peculiari. Si va dall’overture psichedelica e marziale alla ballata elettro-acustica con tanto di violino e chitarra spagnoleggiante. L’atmosfera complessiva ricorda per certi versi i Van der Graaf Generaator e per altri i Pink Floyd di Atom heart mother. Il risultato non è però la somma di queste due citazioni bensì un sound originale, a metà strada fra il folk ed il progressive, denso di stacchi, ripartenze e cavalcate jazz-rock notevoli per tecnica ed inventiva. Il brano successivo, Restless Skylight-Transistor-Child, è anch’esso una lunga suite in cui all’inizio è facile riconoscere l’oggetto dell’ispirazione meccanico-rumoristica dei Pink Floyd di Welcome to the machine. Buona parte del brano è dominata dal sitar, dalle divagazioni lisergiche, da linee di basso ripetute ipnoticamrnte su cui s’innestano di volta in volta l’elettrica e il violino (quasi a sottolineare come la prima sia l’evoluzione moderna del secondo), dal canto straziato ed elegiaco dell’ultima sezione. Il disco si chiude con Chamsin, suddivisa in quattro parti: The Marilyn Monroe-Memorial-Church, Chewinggum Telegram, Stumbling Over Melted Moonlight e Cal Whispering. Qui vengono ribadite ed esasperate le componenti avanguardistiche del Kraut, grazie all’uso si strumenti musicali non convenzionali e di lunghe divagazioni al sintetizzatore. Quel che manca (e non è né un bene né un male) sono forse un uso costante delle dissonanze e l’esasperazione cacofonica tipiche della musica contemporanea dodecafonica.
Tanz der Lemminge è sicuramente un disco non facilissimo, ma è anche un caleidoscopio di dettagli da scoprire ad ogni nuovo ascolto. Personalmente ho imparato ad apprezzarlo col tempo. Ancora oggi, tutte le volte che mi viene voglia di immergermi in un’atmosfera prog dominata dall’improvvisazione, questo è uno dei dischi a cui faccio volentieri ricorso.

 





lunedì 27 maggio 2024

I’m the one - Annette Peacock (voto 7,5)


Il mio primo incontro con Annette Peacock risale alla fine degli anni settanta, quando acquistai il disco solista di Bill Bruford (storico batterista degli Yes prima e dei King Crimson poi) intitolato Feels good to me, in cui l’artista americana compare al canto in tre tracce: Back to the beginning, Seems like a lifetime ago e Adios a la pasada; quest’ultima porta anche la sua firma come autrice. Due anni più tardi un altro batterista altrettanto famoso, Nick Mason dei Pink Floyd, realizzò il suo Fictitious sports avvalendosi della collaborazione di un’altra figura femminile, la jazzista Carla Bley, alla quale sarebbero dovuti andare i meriti principali della riuscita del disco. Annette Peacock, come Carla Bley, è tutt’altro che estranea all’universo del jazz; i suoi orizzonti musicali sono però molto più elastici e la consacrano come una delle figure più originali dell’avanguardia amaricana. Fu proprio il marito di Carla, Paul Bley, pianista ed esponente di punta del jazz, a condividere con Annette l’utilizzo dei primi sintetizzatori Moog nella seconda metà degli anni sessanta, tanto che la firma della Peacock è presente in numerosi brani dell’intera produzione discografica di Bley.
Annette aveva cominciato a comporre da autodidatta già all’età di quattro anni, grazie alla presenza di un pianoforte nella sua casa newyorkese, anche se lo sviluppo della sua personalità artistica si realizzò in California dove ebbe modo di sperimentare anche l’uso dell’LSD, a cui fu introdotta direttamente da Timothy Leary, il celebre psicologo che ne promosse e diffuse l’uso tra le masse.
I’m the one, uscito nel 1972 è il primo lavoro solista della Peacock, e giunge quando  l’artista ha già trentun anni ed un bagaglio di conoscenze musicali importantissimo. L’album contiene nove tracce, il cui filo conduttore è soprattutto la voce della Peacock spesso filtrata dal sintetizzatore; una voce impressionante per timbrica, espressività e potenza, che spazia dal canto jazz al rock ed al blues con una semplicità disarmante, consentendo all’ascoltatore un viaggio avanguardistico ed unico per intensità emotiva e ricchezza di contenuti. Accompagnandosi col solo piano come in 7 days, altre volte squarciando improvvisamente la tela jazzistica con un canto soul come in I’m the one, oppure avventurandosi dall’inizio alla fine in territorio funky/rhythm’n’blues col filtro accentuato del synth fra i ruggiti del sax di Mark Whitecage (Pony), la Peacock innalza definitivamente il ruolo del songwriter tradizionale, anche quello più nobile di Joni Mitchell, fino alla vetta dello sperimentalismo, senza mai rinunciare al gusto primitivo del blues (Blood/One way).
Riascoltare questo disco a distanza di così tanti decenni conferma l’assunto che i grandi capolavori restano sempre freschi ed originali, se non addirittura ancora un passo avanti rispetto all’attualità: che si tratti di free jazz avanguardistico, come in questo caso, oppure di “semplice” rock, a far la differenza sono sempre la voglia e la capacità di superare il “già fatto” e se stessi.





lunedì 3 settembre 2012

BERLIN - Lou Reed (voto: 8)

Ich bin ein Berliner - Io sono un Berlinese.
La storica frase pronunciata a Berlino da Kennedy nel '63 testimoniò l'appoggio americano all'Europa tutta (prima ancora che ai soli berlinesi) dopo che i Russi avevano sostenuto la Germania dell'Est nell'edificazione del muro.
Ich bin ein Berliner, sembra ribadire Lou Reed a distanza di un decennio, a testimonianza di una fascinazione mitteleuropea che l'artista ebreo-newyorchese ha subìto nell'intero corso della sua carriera.
Quale ambientazione se non Berlino per una storia a tinte fortemente decadenti?
Berlino, dunque. Dopo Transformer. Dopo, cioè, quel bagno nel glam-rock fatto a puro scopo di rilancio commerciale e per evitare una prematura caduta nell'oblio.
Agli inizi degli anni settanta, le sonorità dei Velvet Underground - pur riconosciute come essenziali per una svolta culturale alta della musica rock - erano state soppiantate dalle paillettes e dai lustrini del glamour. Personaggi come Alice Cooper e David Bowie, pur non rinnegando l'eredità velvetiana, stavano virando con forza verso i lidi dell'esibizionismo sfrenato della diversità. Da questo punto di vista Lou Reed sta nel Glam-rock come un cammello in una grondaia: troppo riservato, troppo genuinamente underground per sposare l'estroversione di quella fase, pur importante, della storia del rock.
Eppure Transformer era stato un gran disco, ricco di gemme divenute immortali col trascorrere del tempo: penso in particolare a Satellite of love, Walk on the wild side, Perfect day e Make-up. Non appena però le circostanze glielo consentirono, Lou abbandonò quel sentiero e tornò ad essere il paladino di un rock colto e maledetto, la naturale evoluzione del percorso inizialmente fatto con i Velvet.
Berlin, se volete, è un concept-album. Lo è nel senso che racconta, soprattutto dalla soggettiva dell'uomo, la storia tormentata e metropolitana di una coppia in disfacimento psichico e fisico causati della droga e - più in generale - dall'incapacità di vivere un rapporto fatto di condivisione ed amore. 
Le due figure, Jim e Caroline, sono avvitate nelle rispettive dimensioni individuali fatte di fallimentari ricerche del sè e di conseguenti frustrazioni e depressioni. Jim vive in uno stato di totale sottomissione alla figura femminile (non solo di Caroline, c'è anche sua madre sullo sfondo) che lo fa vivere in bilico tra gelosie compulsive ed atti violenti nei confronti della compagna. Caroline, dal canto suo, cerca risposte nell'arte e fra le braccia di chiunque le capiti a tiro. Il suo suicidio è il culmine catartico della storia.
Berlin è un'opera fortemente autobiografica. Lou è Jim, ma spesso anche Caroline, quasi ad implicita conferma della sua conclamata bisessualità. E' talmente autobiografica che Reed non l'ha mai eseguita in pubblico fino al 2007, anno in cui decise di realizzarne addirittura un film-concerto a cura di Julian Schnabel.
Dal punto di vista squisitamente musicale il disco è essenziale ed asciutto, non riserva le sorprese sonore di Transformer, risolvendo così certe contraddizioni piuttosto evidenti all'interno di quell'album, soprattutto le strizzatine d'occhio ad arrangiamenti piuttosto commerciali. 
Berlin è asciutto e potente, la musica in straordinaria sintonia coi testi e viceversa.
Come ogni capolavoro, non è perfetto. Sad song, ad esempio, avrebbe potuto e dovuto essere meno ridondante per i miei gusti. Ma, per la verità, è l'unico appunto che sento di fare ad un'opera che resterà senz'altro per sempre nell'alveo dei capolavori maledetti del rock.


Berlin  - L'intro del piano arriva come una riflessione blues al culmine di un fracasso sonoro che sottolinea il compleanno di Caroline. Una festa che nel ricordo di Jim stride con la dominante tragica delle loro esistenze e si fa dunque rumore, alienazione sonora, flashback disturbante. Quel pianoforte da caffè anni quaranta sembra preludere ad un cantato lunghissimo, quasi eterno. Ed invece le parole di Jim sono poche e straordinarie come un filo di perle.


A Berlino, accanto al muro
Eri alta un metro e settantacinque
Era molto bello
Lume di candela e Dubonnet con ghiaccio
Eravamo in un piccolo caffè
Si sentivano le chitarre suonare
Era molto bello
Oh, tesoro era il paradiso


L'intenzione di Reed, quella di realizzare un film per le orecchie, trova in questi versi stringati la sua piena realizzazione: la cinepresa si sposta dall'esterno del muro all'interno di un piccolo bar come in un piano-sequenza esistenzialista.

Lady Day - Una semplice struttura in 4/4 con improvvisi stop and go a segnalarci che la golden age del Prog è ancora viva. L'andamento è vagamente marziale e, se si considera anche il testo, vien da pensare che la principale fonte d'ispirazione dei Police per Roxanne sia stato proprio questo brano.


Quando camminava per la strada
era come una bambina che si guardava i piedi
Ma quando passava davanti al bar
e sentiva la musica
doveva entrare e cantare
doveva per forza essere così
doveva entrare e cantare
doveva per forza essere così

E io dicevo no, no, no
oh, Lady Day
e io dicevo no, no, no
oh, Lady Day

Dopo che gli applausi erano finiti
e la gente se n’era andata
Scendeva le scale del bar
e usciva
verso l’albergo che lei chiamava casa
Aveva muri verdastri
e il bagno nel corridoio

E dissi no, no, no
oh, Lady Day


Jim ricorda l'esuberanza di Caroline e la descrive come quella dell'artista sul palco: timido e impacciato nella vita reale ("Quando camminava per strada era come una bambina che si guardava i piedi"), esplosivo e disinibito on stage. Jim è geloso di Caroline ("E io dicevo no, no no....")  ma lei sembra non assecondare il suo sentimento e riduce la sua vita ad un continuo viavai tra palchi ed alberghi. Qui le allusioni di Reed sono sofisticate e sottili: Caroline non è una cantante. Il palco è forse il letto su cui Caroline dimentica fra le braccia di altri la sua timidezza? Oppure Caroline è lo stesso Reed che allude poeticamente alla propria omosessualità tormentata e Jim il suo super-io che lo censura? O ancora, siamo forse in presenza di un ripensamento critico di Reed nei riguardi della sua vita d'artista divisa tra teatri e squallidi alberghi dai muri verdastri?

Men of good fortune - Una ballad in puro stile reediano per rimarcare la visione nichilista della vita di Jim. Il testo è costruito in prima persona ed è una riflessione sull'estraneità del protagonista agli stereotipi contrapposti di uomini di buona famiglia ed uomini di umili origini.



Gli uomini di buona famiglia spesso fanno cadere imperi
mentre gli uomini di umili origini
spesso non possono fare proprio niente
Il figlio ricco aspetta la morte di suo padre
il povero può solo bere e piangere
e a me, a me non frega proprio niente

Gli uomini di buona famiglia molto spesso non riescono a fare niente
mentre gli uomini dalle origini umili spesso possono fare di tutto
Cercano di comportarsi da uomini gestiscono le cose
al meglio delle loro possibilità
non hanno un papà ricco su cui contare

Gli uomini di buona famiglia spesso fanno cadere imperi
mentre gli uomini di umili origini
spesso non possono fare proprio niente
Ci vogliono soldi per fare soldi, dicono
Guardate i Ford,
non hanno cominciato così?
Ad ogni modo, per me non fa alcuna differenza

Gli uomini di buona famiglia
spesso desiderano morire
mentre gli umili
vorrebbero ciò che hanno loro
e morirebbero per ottenerlo
Tutte quelle grandi cose che la vita ha da offrire
vogliono avere i soldi e vivere
a me, a me non frega proprio niente

Gli uomini di buona famiglia
uomini di umili origini
Gli uomini di buona famiglia
uomini di umili origini
Gli uomini di buona famiglia
uomini di umili origini
Gli uomini di buona famiglia
uomini di umili origini


Lou Reed (Jim) non si schiera. Si limita a constatare e ad affermare la propria non appartenenza. In definitiva, la propria solitudine. 
Splendido il finale in cui l'eco accentua la contrapposizione delle due categorie ripetute all'infinito.

Caroline says (pt.1) - Jim parla di Caroline. Lo fa in modo convulso ed accalorato, sulle note di un classico rock elettrico che amplifica la carica ironica e nevrotica di un testo carico di frustrazione e tutt'altro che auto-indulgente. 


Caroline dice che cono solo un giocattolo
lei vuole un uomo, non un ragazzp
Oh, Caroline dice, ooohhh, Caroline dice


Caroline dice

che non può fare a meno di essere meschina
o crudele, o almeno così sembra
Oh, Caroline dice, Caroline dice

Lei dice che non vuole un uomo che le sbavi dietro
ma lei è ancora la mia -
- Regina tedesca
Si, è la mia regina

Le cose che fa, le cose che dice

la gente non dovrebbe trattare gli altri in questo modo
ma all’inizio pensavo di poter sopportare tutto
Come il veleno in un’ampolla
hey, spesso era così volgare
ma naturalmente, pensavo di poter sopportare tutto

Caroline dice che non sono un uomo
così andrà a cercarselo dove capita
Oh, Caroline dice, si, Caroline dice

Caroline dice che dei momenti della sua vita
non possono continuare ad essere solo miei
Oh, Caroline dice, si, Caroline dice

Mi tratta come fossi un imbecille
ma per me lei è ancora la mia -
- Regina tedesca, ooohhh, lei è la mia -
- Regina, si …
Regina, ehi tesoro, lei è la mia regina
(Regina)

Nel brano è chiaro il riferimento a Nico, la femme fatale tedesca dei Velvet Underground.Un po' più nascosta è invece la figura materna, con cui il giovane artista newyorkese ebbe un rapporto conflittuale tale da accendere in lui la scintilla della misoginia e, forse, della sua stessa omosessualità. 
Dal testo traspare chiaramente l'incapacità di Jim di relazionarsi con le donne. La sua è una posizione sottomessa e passiva. Come avrebbe potuto essere altrimenti se tua madre da ragazzo ti ha condotto in una clinica in cui ti hanno praticato l'elettroshock per farti guarire dall'omosessualità? 

How do you think it feels? - Stavolta Jim parla di se stesso e lo fa con la crudezza che è propria di chi non è abituato a confidare le proprie emozioni. E' una sequenza di parole dette con rabbia a stento trattenuta. Una rabbia che trova due colpevoli precisi: sua madre e Caroline. ("come here, baby", riferito alla sua donna, "come down here, mama", riferito alla madre). Una cascata di elettricità, il drumming convulso ed un contrappunto finale di tromba fotografano nel migliore dei modi la dimensione nevrotica del testo.


Come pensi ci si senta
quando sei strafatto e solo?
(vieni qui tesoro)
come pensi ci si senta
quando tutto ciò che puoi dire è “se solo …”?

Se solo avessi un po’ di roba
se solo avessi qualche spicciolo
(forza tesoro)
se solo, se solo, se solo
Come pensi ci si senta
e quando credi che smetta?

Come pensi ci si senta
quando sei sveglio da cinque giorni
(vieni quiggù mamma)
sempre a caccia di qualcosa, ooohhh
perchè hai paura di dormire?

Come pensi ci si senta
a sentirsi come un lupo ingiallito?
come pensi ci ci senta
A fare sempre l’amore per procura, huh?
come pensi ci si senta
e quando pensi che smetta
quando pensi che smetta?



Oh, Jim - E' un brano a doppia struttura - elettrica la prima, acustica la seconda - che risale ai tempi dei Velvet Underground. Continua la messa a fuoco sui rancori di Jim e sulla sua condizione di emarginato.



Tutti i tuoi amici da quattro soldi
ti imbottiscono di pillole
dicevano che ti avrebbe fatto bene
che ti avrebbe curato tutti i tuoi mali
Non mi importa di dove si sta
sono come un gatto randagio


E quando sei pieno d’odio fino a qui

non sai che devi andare dritto per la tua strada?
pieno d’odio fino a qui
riempila di lividi e vai dritto per la tua strada
Do, do, do, do, do, do
quando guardi attraverso occhi d’odio

Tutti i tuoi amici da quattro soldi
ti chiedevano l’autografo
ti mettevano sul palco
pensavano andasse bene per farsi quattro risate
Non mi importa di dove si sta
perchè tesoro io sono come un gatto randagio

E quando sei pieno d’odio fino a qui
non sai che devi andare dritto per la tua strada?
pieno d’odio fino a qui
riempila di lividi e vai dritto per la tua strada
Uh-huh

Oh, Jim come hai potuto trattarmi così?
Hey, hey, hey come hai potuto trattarmi così?
Oh, Jim come hai potuto trattarmi così?
Hey, hey come hai potuto trattarmi così?
Sai che mi hai spezzato il cuore
da quando sei andato via
Beh dicevi che ci amavi
ma facevi l’amore solo con uno di noi due
Oh, oh, oh, oh, Jim
come hai potuto trattarmi così?
Sai che mi hai spezzato il cuore
da quando sei andato via
Quando guardi attraverso gli occhi dell’odio
oh, oh, oh, oh

Singolare l'"how could you treat me this way?" che ritroveremo in The Wall dei Pink Floyd, sempre a descrivere una condizione di duplice abbandono: amoroso ed esistenziale.

Caroline says (pt.2) - Una struggente ballata acustica in cui la fa da padrona la forma indiretta, quasi per una sorta di pudore ad esprimere in prima persona il disagio e la sorpresa del suicidio di Caroline. Il testo è emozionante pur non lasciando alcuno spazio a sentimentalismi di sorta.


Caroline dice
alzandosi dal pavimento
perchè mi picchi?
non è affatto divertente

Caroline dice
truccandosi l’occhio
dovresti imparare di più su te stesso
non pensare solo a te stesso

Ma lei non ha paura di morire
tutti i suoi amici la chiamano “Alaska”
quando si fa di anfetamine
loro ridono e le chiedono
Cosa ha in testa
cosa ha in testa

Caroline dice
alzandosi dal pavimento
puoi picchiarmi quanto vuoi
ma non ti amo più

Caroline dice
mordendosi il labbro
la vita dovrebbe essere
più di tutto questo
e questo è un viaggio schifoso

Ma lei non ha paura di morire
tutti i suoi amici la chiamano “Alaska”
quando si fa di anfetamine
loro ridono e le chiedono
Cosa ha in testa
cosa ha in testa

Ha sfondato la finestra con un pugno
è stata una sensazione così strana
Fa così freddo in Alaska
fa così freddo in Alaska
fa così freddo in Alaska


Poesia e disperazione metropolitane, dolori repressi che si fanno largo a stento attraverso le righe, certamente un brano fra i più sofferti ed autobiografici della produzione di Lou Reed (sua moglie aveva davvero tentato il suicidio). Miss Alaska, algida e fragile, derisa dagli amici per le sue pericolose stravaganze, sfonda la finestra con un pugno ed ecco che la sua sorte, il suo suicidio, è descritto con una semplice e meravigliosa "Fa così freddo in Alaska", quasi a sottolineare come perfino la morte sia un luogo comune. Un'agghiacciante frase fatta per una banale tappa della nostra esistenza.

The Kids - "that miserable rotten slut couldn’t turn, anyone away" ed il pianto dei bambini portati via ad Alaska-Caroline sono due squarci disturbanti e profondi sulla tela di un brano dai connotati quasi folk. Un brano in cui Jim canta la propria soddisfazione per la separazione forzata della figlia dalla madre ad opera dei servizi sociali. Un riscatto in piena regola per chi finalmente può vedere le lacrime della sua donna che tante lacrime ha causato a lui. ("And I am the Water Boy" / But since she lost her daughter It’s her eyes that fill with water"): un'amara applicazione della legge del contrappasso ed un nuovo accecante attestato di cruda sincerità che pone Lou Reed su un piedistallo poetico esclusivo, ancorchè scomodo.


Stanno portando via i suoi bambini
perchè hanno detto non fosse una buona madre
stanno portando via i suoi bambini
perchè se la stava facendo
con i fratelli e le sorelle
e con chiunque altro, con tutti
se ne stavano lì come funzionari da due soldi
a farle la corte davanti a me
Le stanno portando via i bambini
perchè dicevano che non fosse una buona madre
stanno portando via i suoi bambini
per tutte le cose che hanno sentito sul suo conto
il sergente di colore dell’aviazione non era stato il primo
e tutte le droghe che si era fatta, tutte, proprio tutte

E io sono il ragazzo dell’acqua
la partita vera non è ancora finita
ma il mio cuore trabocca comunque
sono solo un uomo sfinito, non ho parole da dire
ma da quando ha perso suo figlia
sono stati i suoi occhi a riempirsi d’acqua
e io sono molto più felice così

Stanno portando via i suoi bambini
perchè dicevano che non fosse una buona madre
stanno portando via i suoi bambini
perchè la prima era stata la fidanzata di Parigi
le cose che facevano
ah, certo non dovevano chiederlo a noi
e poi il gallese dall’India
che si stabilì qui

Le stanno portando via i bambini
perchè dicevano non fosse una buona madre
stanno portando via i suoi bambini
per tutte le cose che faceva per le strade
nei vicoli e nei bar, nessuno poteva batterla
quella sporca e miserabile puttana
non si negava a nessuno

E io sono il ragazzo dell’acqua
la partita vera non è ancora finita
ma il mio cuore trabocca comunque
sono solo un uomo sfinito, non ho parole da dire
ma da quando ha perso suo figlia
sono stati i suoi occhi a riempirsi d’acqua
e io sono molto più felice così


The Bed - Il disperato cinismo di Jim si rivela adesso tramite l'elencazione dettagliata, quasi cronistica, delle cose presenti e passate all'interno della stanza in cui Caroline si è tagliata le vene. Ritorna la chiave del "film for ears": ci sembra vi vedere Jim che indica col dito il letto, il cuscino, le scatole sullo scaffale, la stanza tutta. Ci sembra di vederlo muoversi lentamente, come lento è l'incedere del brano musicale, quasi fosse egli stesso una cinepresa. 

Questo è il posto dove poggiava la testa

quando andava a letto la notte
e questo è il posto
dove sono stati concepiti i nostri figli
di notte le candele illuminavano la stanza

E questo è il posto dove si è tagliata le vene
quella notte strana e fatale
e ho detto, oh, oh, oh, oh, oh, oh, che sensazione
e ho detto, oh, oh, oh, oh, oh, oh, che sensazione

Questo è il posto dove vivevamo
l’ho pagato con amore e sangue
e queste sono le scatole
che teneva sullo scaffale
piene di poesie e cose varie

E questa è la stanza dove ha preso il rasoio
e si è tagliata le vene quella nota strana e fatale
e ho detto, oh, oh, oh, oh, oh, oh, che emozione
e ho detto, oh, oh, oh, oh, oh, oh, che emozione


Non avrei mai cominciato se avessi saputo

che sarebbe finita così
ma, cosa strana, non sono affatto triste
che sia stata questa la conclusione

Questo è il posto dove poggiava la testa
quando andava a letto la notte
e questo è il posto
dove sono stati concepiti i nostri figli
di notte le candele illuminavano
di luce vivida la stanza

E questo è il posto dove si è tagliata le vene
quella notte strana e fatale
e ho detto, oh, oh, oh, oh, oh, oh, che emozione
e ho detto, oh, oh, oh, oh, oh, oh, che emozione

Anche qui, come in The Kids, è presente un elemento di disturbo: il ritornello "Oh oh oh oh oh oh oh what a feeling!" accende di una luce sinistra un brano la cui componente drammatica è tenuta sempre sotto controllo da una struttura musicale che ricorda un'innocentissima nenia.

Sad Song - Brano che inizia come un'opera sinfonica, sembra svilupparsi secondo canoni decisamente rock, assume le caratteristiche di una lenta ballata, ritorna al rock. In certi passaggi ricorda la splendida "Satellite of Love" e forse è un ricalco voluto dall'autore.


Guardando il mio album fotografico
sembra Maria, regina di Scozia
mi pareva così regale
questo dimostra come ci si possa sbagliare

Devo smetterla di perdere tempo
qualcun altro le avrebbe spezzato entrambe le braccia
Canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste

Il mio castello, i bambini e la casa
pensavo fosse Maria, regina di Scozia
ci ho provato così tanto
ciò dimostra come ci si possa sbagliare

Devo smetterla di perdere tempo
qualcun alto
le avrebbe spezzato entrambe le braccia
Canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste


Jim si autoassolve, dunque. Cinismo? Non penso. E' quello che tutti fanno - o tentano di fare - dopo il suicidio del proprio compagno. I rimorsi, i rimpianti, le lacrime sono solo un primo, doveroso passaggio che inevitabilmente conduce all'autoassoluzione. Ma da Lou Reed pretendete forse che vi racconti le sue lacrime e i suoi rimpianti? Lui va dritto al sodo, facendo del suo cinismo un momento di alta e fredda poesia.

martedì 28 agosto 2012

The lamb lies down on Broadway - Genesis (voto: 9)



"Non copritemi gli occhi, mentre scrivo voglio poter dare un'occhiata alle farfalle di vetro che si sono posate sulle pareti". (Peter Gabriel, 1974)


Ho riflettuto a lungo sul taglio da dare a questo post, senza giungere ad una decisione definitiva. Interpretazioni, aneddoti, analisi certosine sulla cifra stilistica di questo disco si sprecano e continuano ad accavallarsi a distanza di quarant'anni dalla sua uscita senza che si riesca a mettere un punto e basta alle cose da dire, da confermare, da confutare, da contestare. The lamb è un vaso di Pandora o, se preferite mantenervi su un piano di realtà più concreto, la Sagrada Familia della musica rock.

C'è più letteratura a proposito di questo album che su alcuni libri di autori anche importantissimi della scena letteraria mondiale. La spiegazione di tale curioso fenomeno è in realtà molto semplice: nessuno mai, soprattutto in Italia, è stato amato come sono stati amati i Genesis. E l'amore per un gruppo rock, dato che la musica e l'aspetto visivo si aggiungono a quello letterario costruendo un caleidoscopio emotivo senza pari, è sempre più rotondo dell'amore per uno scrittore. Un amore spesso totemico, anche da parte (soprattutto nel caso dei Genesis) della cosiddetta cultura alta, quella cioè che tante volte ribadisce le proprie distanze dai fenomeni cosiddetti pop. La magia dei Genesis rompe dunque l'incantesimo della dicotomia fra cultura alta e cultura popolare, aggrega intellettuali ed analfabeti intorno ad unico feticcio, ammorbidisce le linee di confine fra sacro e profano, razionale ed empirico, arte e spettacolo. L'infinito fiorire di recensioni e commenti, chiose, libelli e pareri d'autore si spiega così. 

Che taglio dare dunque a questo post se tutto, forse addirittura troppo, è stato già detto e scritto? Fare l'ennesima recensione brano per brano marcando stretto i giochi di parole e la genialità di certe soluzioni musicali? Riassumere la storia di Rael, il protagonista del disco, ponendo l'accento sulla metafora del suo percorso così simile eppure così diverso da quello dell'Ulisse raccontato da Omero? Forse potrei fare entrambe le cose limitandomi a citare alcune fonti esistenti sull'argomento. Anche questo è però già stato fatto. Dunque, le possibilità di uno scritto davvero originale su The Lamb sono pressoché nulle. Inoltre c'è la questione del pubblico a cui rivolgersi: neofiti od iniziati? Ogniqualvolta non so da che parte iniziare, capisco che devo scrivere di getto ed attendere che l'illuminazione mi colga.

E' il 1974. 

Le sale cinematografiche proiettano Mean Streets di Scorsese, La paura mangia l'anima di Fassbinder e La Conversazione di Coppola, ma anche Fantozzi e Porgi l'altra guancia. Muore Vittorio de Sica. Sulla rete televisiva americana ABC fa il suo debutto la serie televisiva Happy Days. A Roma il Partito Radicale inizia la campagna referendaria per l'abrogazione della norma del codice penale che vieta l'aborto, mentre a Torino la FIAT mette in cassa integrazione 65.000 operai, preparando il terreno ad uno degli autunni più caldi della storia italiana. Richard Nixon dà le dimissioni da Presidente degli U.S.A. per evitare l'impeachment a seguito dello scandalo Watergate, più o meno negli stessi giorni in cui da noi si compie la strage in Piazza della Loggia a Brescia. L'industria discografica sforna Rock 'n' roll Animal di Lou Reed, Diamond Dogs di Bowie, Apostrophe' di Zappa e Planet Waves di Dylan. La nostra hit parade ci segnala ai primi posti la Vanoni e Baglioni ed Anna da dimenticare dei Nuovi Angeli. Quest'ultima notizia è un po' forzata a causa dei pruriti sarcastici del sottoscritto, il quale non può però - amando la verità - fare a meno di segnalare fra i dischi più venduti da noi, Tubular Bells di Mike Oldfield e Selling england by the Pound dei Genesis, quest'ultimo uscito nel 1973.

La storia narra che nello snocciolarsi delle date del tour che servì a promuovere Selling England vanno ricercati i prodromi dell'imminente separazione di Gabriel dai Genesis: quelle maschere ingombranti, i travestimenti, l'eccessiva centralità del frontman, stavano iniziando ad andar stretti agli altri quattro. I primi malumori nell'universo Genesis stavano dunque per porre fine alla stagione dell'Art rock. Così, quando l'album successivo fu dato alle stampe, il divorzio tra l'istrionico cantante e gli altri quattro musicisti era già stato consumato. Gabriel si era presentato in sala d'incisione con tutti i testi del nuovo album sotto il braccio senza aver contribuito alla realizzazione della musica e soprattutto, cosa che gli altri non gli avrebbero mai perdonato, avendo negato a Banks, Rutherford, Hackett e Collins di mettere becco nella stesura dei testi, per timore che l'impalcatura della storia in essi contenuta - così complessa e fragile allo stesso tempo - avesse potuto scricchiolare, vanificando il suggestivo gioco di rimandi letterari e di allusioni oscure che rappresentavano il punto di forza del progetto.


"Mi stavo sentendo parte dello scenario, fuggii via dal meccanismo" (Peter Gabriel, 1976)


The lamb lies down on Broadway, quattro facciate per novanta minuti complessivi, nasce dunque così: la musica da una parte, i testi dall'altra. Un megalomane autoritario che inizia a cantare su tutto ciò che ha un suono, coprendo con la sua voce perfino le parti nate per essere solo delle transizioni sonore. Insomma, degli ottimi presupposti per un flop discografico, di pubblico e di critica. Steve Hackett, il chitarrista del gruppo, ricorda le fasi della registrazione come uno dei momenti più frustranti della sua esistenza. Perfino Tony Banks, amico d'infanzia di Gabriel, pensa ancora a The Lamb come ad un'occasione perduta. Ancora oggi i fans dei Genesis si dividono tra quelli che gridano al miracolo (pochi), i tiepidi (molti) e i detrattori tout court (la maggior parte). La stessa cosa vale per la critica e per gli amanti della musica in generale. 

E' alquanto strano, comunque, che se ne continui a parlare a distanza di circa quarant'anni con toni sempre accesi: ho fatto un rapido giro sul web e mi sono accorto che esistono recentissimi botta e risposta dai toni spesso off limits sull'argomento.

La verità è che The lamb lies down on Browday è il capolavoro assoluto del Prog-Rock e quindi, utilizzando un semplicissimo sillogismo aristotelico molto caro agli amanti della musica colta, il capolavoro assoluto della storia del Rock.

So benissimo che quando si fanno affermazioni così nette si corre il rischio di risultare poco credibili e vittime di una fascinazione fuorviante ed illusoria. Sarà bene pertanto che io passi immediatamente a motivare ciò che ho appena detto.

Ciò che rende immortale un'opera, sia essa letteraria, pittorica, cinematografica o musicale, è l'abbondanza dei piani di lettura. Se l'Ulisse di Joyce, ad esempio, non unisse ad un registro dottrinale (dominante) un registro parodistico, non sarebbe il romanzo più importante del '900. Se il Guernica di Picasso fosse una tela raffigurante un bombardamento aereo piuttosto che il meraviglioso caleidoscopio di simboli oscuri che in realta è, non si sarebbe mai parlato di opera immortale. Se Kubrick non avesse preso a pretesto la fantascienza per descrivere la perdita di controllo dell'uomo moderno nei confronti di se stesso e della realtà circostante, 2001 Odissea nello spazio non sarebbe un film leggendario.

The Lamb è innanzitutto un affresco sonoro che sposta le coordinate del progressive dal versante madrigalesco e favolistico a quello underground ed espressionista. Tale passaggio è ben simboleggiato dalla complessa copertina, non più affidata alle coloratissime illustrazioni di Paul Whitehead (perfette per gli album precedenti), ma da una sequenza di foto rigorosamente in bianco e nero assemblate da Storm Thorgerson in modo da raccontare la storia di Rael, il protagonista della storia, con la vena espressionista di cui sia la musica che i testi sono ricchi.

Un affresco sonoro, dicevo, in cui si possono ravvisare i primi bagliori punk (Back in N.Y. city), i passaggi dodecafonici (The Waiting Room) in cui il lavoro di Brian Eno - che partecipò alla realizzazione dell'album - emerge con chiarezza, i momenti intimisti (Fly on a Windshield - Anyway), le ballad in puro stile progressive come The Carpet Crawlers, la cui struttura classica è arricchita da un'introduzione che ricorda i brani dei musicals americani. Complessivamente, l'abbondanza dei tempi dispari offre a Gabriel l'occasione per sfoderare una serie di acrobatici calembour, a Collins di consacrarsi come batterista di livello superiore e ad Hackett di esibire una serie di soluzioni chitarristiche di notevole pregio.

Tra i brani degni di nota, oltre a quelli già citati, spenderò qualche parola in più per Broadway Melody of 1974, memorabile per il cantato, il testo, il pulsare del basso. La voce di Gabriel sale e scende fino ai registri più bassi per regalarci il sapore di un'epoca tormentata e confusa che trasmette sinistri presagi. Il brano prende chiaramente spunto dal musical The Broadway Melody del 1929 (guarda caso, l'anno della grande recessione americana e mondiale), la cui versione originale, contenente qualche fotogramma in Technicolor, andò persa. Oggi sopravvive un'unica copia in bianco e nero, ed a Gabriel non dev'essere sfuggito questo curioso particolare, poichè la sua riedizione a distanza di quarantacinque anni ha nella musica e nel testo il potere evocativo di cose irrimediabilmente perdute od in lento disfacimento: 

Echi dell'immortale Broadway
Con le mitiche madonne che camminano ancora nelle loro ombre
Lenny Bruce dichiara una tregua e gioca l’altra mano
Marshall McLuhan, osservando casualmente, nasconde la testa sotto la sabbia
Sirene risuonano sui tetti ma non c’è nessuna nave che salpa
Groucho, con gli spezzoni dei suoi film, se ne sta da solo con le sue battute fallite
Il Klu Klux Klan serve cibo caldo per l’anima e la banda suona “In The Mood”
La ragazza pon-pon agita la bacchetta al cianuro
C’è un odore di fiore di pesco e mandorle amare
Caryl Chessman annusa l’aria e guida la parata
Sa che in un profumo si può imbottigliare tutto ciò che si fa
C’è Howard Hughes con scarpe di camoscio blu
Che sorride alle majorettes fumando sigarette Winston
E mentre canzoni e danza hanno inizio
I bambini giocano a casa con aghi,
Aghi e spilli.






L'ultimo verso arriva, come dicevo poc'anzi, ad inserire il tempo futuro in un testo che sciorina icone del passato e del presente ripercorrendo cinquant'anni di storia americana in poche battute: i bambini si esercitano nell'arte del Voodoo, emblema di un futuro prossimo in cui ci sarà sempre meno spazio per la ragione e sempre più per la violenza.


Le persone dei miei ricordi sono appese ad eventi non molto chiari, ma ne tiro fuori una osservandola mentre si disintegra, si decompone per dar corso ad un'altra sorta di vita. La persona in questione è di materiale completamente decomponibile, che ritorna allo stato naturale e si chiama RAEL. Rael mi odia, io voglio bene a Rael. Sì, anche gli struzzi hanno sentimenti. Ma la nostra relazione è qualcosa con la quale entrambi stiamo imparando a vivere. A Rael piace divertirsi, a me piace una buona rima, ma non riuscirete più a vedermi direttamente - lui odia la mia presenza. Così, se non funziona, sarò pronto a fare la terza persona, capite? Le rime sono lì apposta, sciocchi. (Peter Gabriel, 1974)





La storia di Rael è quella di un giovane portoricano di New York che in una fredda mattina d'inverno sbuca dalla subway nel cuore di Manhattan col suo carico di orgoglio e di frustrazioni. Dal vapore di un marciapiede newyorkese prende forma e vita un agnello, mentre una nube scende come un pallone su Time Square, per poi appiattirsi sulla superficie della piazza fino a diventare un immenso schermo che rapidamente assorbe qualsiasi cosa. I Newyorkesi continuano la vivere la propria quotidianità come se nulla fosse. Rael tenta di sfuggire al cataclisma ma la polvere che si solleva da ogni dove s'impossessa di lui al punto tale da pietrificarlo. Piomba in uno stato d'incoscienza e da qui in poi inizia un'avventura metaforica attraverso incontri con esseri deformi, creature mitologiche, suo fratello John, che lo condurranno al ritrovamento del "sè". 

Avventura metaforica - dicevo - ed aggiungerei massonico-rivoluzionaria alla stessa maniera in cui lo è il Così fan tutti di Mozart (cfr. Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario - Mondadori 2005), e quindi opera alchemica di trasformazione psichica e sessuale (The Lamia, Hairless Heart, Counting out time) e di Rigenerazione.

Tali temi - l'elemento massonico-rivoluzionario, il Mysterium conjunctionis jungiano - sono elementi costitutivi dell'intera era psichedelica oltre che della formazione culturale di Peter Gabriel. Non è la prima volta (e non sarà l'ultima) in cui nelle creazioni gabrielliane si fanno riferimenti più o meno espliciti alle discipline filosofiche ermetiche (la cabala, l'alchimia, la sezione aurea). Nelle interviste a Gabriel è spesso emerso un passato di letture di Alchimia. In particolare dell'Aurora Consurgens, trattato attribuito a Tommaso d'Aquino e studiato (guarda un po'...) da Jung, altra fonte culturale alla quale Gabriel ha sempre attinto a piene mani. The Rhythm of the Heat, ad esempio, del 1982, è per stessa ammissione dell'autore ispirata dai Viaggi in Africa del grande filosofo tedesco. Inoltre, il suo essere inglese da cima a fondo, non gli ha certo fatto venir meno la lettura dei classici di Dee e Fludd, noti esoteristi, oltre che di Blake e Yeats.

Questo post non vuole essere un trattato di filosofia e neanche di letteratura. Starà a voi scoprire questo livello di lettura così profondo attraverso lpanalisi dei testi di The Lamb. Vedrete che vi si spalancherà un mondo segreto (un Secret world, per citare ancora Gabriel) dentro cui nessuno ha mai imparato a muoversi con disinvoltura e che, proprio per questo, vi trascinerà dentro di sè facendovi smarrire il vostro (di sè), per poi restituirvelo all'uscita sotto forma di IT.