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mercoledì 5 giugno 2024

Affinità - divergenze - CCCP (voto: 6)


 “Mal che vada ne faremo un cantante”.
Giovanni Lindo Ferretti racconta spesso l’episodio del suo ingresso in collegio conclusosi con questa frase pronunciata da sua madre al cospetto suo e dei suoi precettori. Lo racconta in modo ironico ed amaro perché Ferretti, per sua stessa ammissione, ha sempre considerato la figura del cantante non affiliata alla sfera della creatività né a quella dell’utilità.
La paura di diventare un cialtrone lo spinse a recitare in modo estremamente teatrale e poetico la parte del “punkettone” (questo è il termine che spesso usa per auto definirsi), mescolando le atmosfere del cabaret berlinese agli slogan politici ed a taglienti invettive nei riguardi della nichilistica società dei consumi.
Questa duplice veste messianico/militante gli valse i consensi di un pubblico che, per buona parte degli anni ottanta, credeva ancora ad una Nuova Gerusalemme laica ed ai piani quinquennali sovietici. Eppure in quel ragazzo con la cresta e con la cultura marxista in tasca c’era qualcosa che andava al di là della semplice militanza; e quel qualcosa era un indubbio carisma non dissimile da quello degli antichi profeti, rafforzato da due elementi apparentemente contrastanti: l’innata tendenza agli entusiasmi - che gli consentiva di superare qualsiasi ostacolo con coraggio leonino - e nello stesso tempo la fragilità di chi si ferma spesso ad interrogarsi sulla qualità morale delle azioni, ma senza godere della protezione dello scudo fideistico tipico di certe culture e di certi movimenti. La politica, quella politica predicata sul palco per alcuni anni, non poteva che dare risposte sbagliate alla sua sete di verità, così l’avventura dei CCCP - FEDELI ALLA LINEA non durò molti anni, giusto il tempo di realizzare qualche EP: Ortodossia (1984) Ortodossia II (1984), Compagni, cittadini, fratelli, partigiani (1985); poi il primo album Affinità - divergenze fra il compagno Togliatti e noi: del conseguimento della maggiore età (1985), il secondo Socialismo e barbarie (1987), il terzo Canzoni, preghiere, danze del II millennio - Sezione Europa (1989) ed infine l’ultimo Epica, Etica, Etnica, Pathos nel 1990.
Il passionario Ferretti svoltò in modo apparentemente radicale, negli anni della cosiddetta maturità, passando dalla “chiesa rossa” alla “chiesa chiesa”: un passaggio comune a troppe anime tormentate per essere considerato originale; che poi in questo caso la vicenda abbia sollevato indignazione fra gli adepti, è cosa anche questa del tutto normale e simile al passaggio di un calciatore da un club all’altro.
Ma veniamo al primo disco del gruppo, quel Affinità - divergenze fra il compagno Togliatti e noi: del conseguimento della maggiore età ancora oggi molto amato dai nostalgici non solo emiliani (Ferretti e co. sono sempre stati molto legati alla loro terra d’origine).
La formazione è quella originale e classica, con Ferretti alla voce, Zamboni alla chitarra, nessuno alla batteria (una piccola drum machine era più che sufficiente).
I brani sono per forza di cose scarni e sgangherati (nessuno dei due conosceva la musica) ma questo ha poca importanza perché il punk si nutre proprio di queste caratteristiche. Il risultato è comunque di grande impatto, soprattutto grazie alle liriche che Ferretti declama più che cantare: si va da Curami, nata in modo del tutto casuale dalla distorsione della parola Cure (Zamboni stava giocando con un riff di chitarra che a Ferretti ricordò il gruppo di Robert Smith), alla cabarettistica Mi ami?, fino ad arrivare al brano più desolato e lungo dell’intero album, quella Emilia paranoica rimasta poi nell’immaginario collettivo degli adepti dei CCCP. Il testo alterna suggestioni poetiche (Il freddo più pungente, accordi secchi e tesi, segnalano il tuo ingresso nella mia memoria) a malesseri personali generati dalla politica internazionale dell’epoca (Bombardieri su Beirut - Due tre quattro plegine - Due tre quattro plegine) fino a risolversi nell’abbandono definitivo (Emilia di notti agitate per riempire la vita
Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire).
La tentazione nichilista è un germe al quale è forse impossibile sottrarsi, anche se si prova a restare aggrappati ad una speranza comunista prima e metafisica poi.
I CCCP, col loro cabaret in bianco e nero e l’inevitabile riferimento brechtiano (il gruppo si era formato a Berlino) sono la fotografia sincera di un’epoca in cui la speranza era già ampiamente perduta. Di loro resta soltanto la tenera immagine di ingenui ragazzi sconfitti in partenza, alle prese con una guerra molto più personale che politica: una sfida al Nulla che è impossibile vincere.

sabato 1 giugno 2024

Envy - Ambitious Lovers (voto: 7,5)


Il CBGB, locale underground nell’East Village della New York degli anni settanta, fu il crocevia delle nuove tendenze musicali impegnate a ridare al rock la sua impronta originaria che, a torto o a ragione, era stata deturpata da anni di prog sinfonico e dall’incubo di una disco music sempre più dilagante e prevaricatrice. Patti Smith e Tom Verlaine s’incaricarono del progetto revisionista e lo condussero con piglio deciso, quasi messianico, coinvolgendo un numero sempre più consistente di artisti con background disomogenei ma accomunati da un approccio intellettuale alla musica.
New York era a quei tempi, molto prima che il processo di gentrificazione la rendesse la vetrina di plastica che oggi conosciamo, una città povera (la stessa Manhattan con la centralissima Times Square era un posto malfamato e pericoloso da frequentare). Va da sé che la sua natura metropolitana e contraddittoria attraesse giovani sbandati ed artisti in erba desiderosi di vivere da protagonisti i fermenti che germogliavano con sorprendente intensità. Ecco allora che, accanto ai due già menzionati capipopolo, il CBGB accolse ad esempio personaggi come James Chance, David Byrne, Glenn Branca e, last but not least, Arto Lindsay. Il movimento fu chiamato NO WAVE, in aperta polemica con gli elementi eccessivamente pop e commerciali caratterizzanti la new wave.
Scoprii Arto Lindsay a Bologna nel 1981 in occasione di un festival multimediale che vide, fra le altre iniziative, la lettura della Divina Commedia dalla Torre degli Asinelli da parte di Carmelo Bene, oltre ad una serie di esibizioni di gruppi musicali underground fra cui i locali Gaznevada, i Pere Ubu, i Lounge Lizard ed i DNA, capitanati appunto da Arto Lindsay. La storia dei DNA fu tanto breve quanto luminosa e determinante per la svolta che la NO WAVE propugnava: musica scarna e priva di un centro tonale, chitarra di Arto tagliente, psicotica ed apparentemente fuori controllo, percussioni ridotte all’osso ed organo che definire minimale è poco più che un eufemismo: la musica nuova è servita; la rivoluzione, compiuta; il rock si è rifatto il look ed è tornato a splendere più radioso che mai.
Chiusa l’esperienza con i DNA, Arto fonda col tastierista Peter Scherer gli Ambitious Lovers, progetto meno estremo del precedente e quindi più ricco dal punto di vista squisitamente musicale. Le radici per metà brasiliane del chitarrista emergono per mescolarsi al noise, producendo un risultato esplosivo anche se un tantino più orecchiabile (!), seminale per le generazioni future.
Envy esce nel 1984 e si apre con le sincopi funky di Cross your legs, punteggiate dalle tastiere minimali arrangiate da Peter Scherer; prosegue sulla stessa falsariga con Trouble maker, si apre al samba tradizionale di Pagode Americano, eseguito soltanto con un intreccio di percussioni, quasi a voler sottolineare il recupero più radicale del minimalismo; si passa al delirio breve di Nothings monstered, in cui lo screaming e lo scratch divorano tutto. Tribalismo ed elettronica si fondono fino ad arrivare alle acque più quiete, ma non per questo meno trasgressive e futuriste di Too many mansions: la voce di Arto è solo accennata e procede per salti, creando un effetto straniante ed al tempo stesso stranamente romantico. Venus lost her shirt è una fanfara contrappuntata da un loop di sinth e dalla chitarra atonale che sembra impazzita.
Il modello di fusion creato da Lindsay e Scherer resta un unicum, e non solo in campo No Wave. Come sempre accade, l’originalità e lo spirito pionieristico non pagano in termini commerciali; così oggi ricordiamo e continuiamo a celebrare i Television di Verlaine ed i Talking heads ma sembra non esserci alcuna voglia di andare a riscoprire talenti purissimi e dischi che hanno fatto in modo silenzioso la storia del rock. 

mercoledì 29 maggio 2024

Butthole Surfers - Butthole Surfers (voto: 7,5)


Se qualcuno pensa che il Texas sia solo e soltanto la terra dei Bush e dei ricchi petrolieri alla J.R., oppure pensa che simboleggi alla perfezione l’America più becera e retrograda, incapace di fare una O col bicchiere e, a maggior ragione, di dettare legge ed innovare in campo artistico, beh…forse dovrebbe ascoltare questo EP uscito nel 1983 e, possibilmente, ricredersi.
Butthole Surfers è il primo mini album omonimo di una band formatasi a San Antonio per iniziativa di Gibby Haynes e Paul Leary (cognome inquietante che rimanda al padre dell’LSD), rispettivamente cantante e chitarrista, ragazzi sbandati e prototipi perfetti della gioventù che il movimento hardcore stava proprio in quegli anni cantando e celebrando. Sì, perché l’hardcore fu quella stagione musicale, successiva al punk, che ne estremizzò sia le istanze politiche che le componenti distruttive squisitamente musicali, accelerando all’impazzata la velocità della sezione ritmica e, al contempo, riducendo ai minimi termini la lunghezza dei brani. L’hardcore fu la musica dei giovani disperati, chiusi in se stessi e confinati nell’angusto perimetro delle proprie camerette, dediti soltanto alla masturbazione più sfrenata ed all’ascolto ad alto volume di tutto ciò che potesse stordirli all’inverosimile.
I Butthole Surfers diedero una sterzata clamorosa a quello status quo nichilista senza rinnegarne le radici (che erano poi le proprie) ma nobilitandolo in modo assolutamente originale con potenti iniezioni di tradizione (psichedelia, heavy metal e folk) che, tutto sommato, erano le basi su cui comunque il punk ed i suoi derivati poggiavano. 
Ecco allora che un brano come Hey sembra quasi una cavalcata country western a ritmo punk; Something, con un andamento da synth pop acido, mette un sigillo artistico ad una moda ontologicamente povera di contenuti (straordinario l’uso della slide guitar come se fosse un sintetizzatore); Bar B-Q Pope è grunge ante literam e rivela il pozzo a cui attingerà a piene mani Kurt Cobain; Wichita Cathedral è un rockabilly che si fa largo fra feedback e soli di chiatarra acidi; Suicide è la più punk fra tutte le canzoni dell’album, pur mantenendo nel cantato un taglio decisamente fuori contesto. The revenge of Anus Presley, col suo andamento da blues in 12/8, è il brano che preferisco per la sua tendenza ad essere altro da sé. Qui infatti la struttura blues è orribilmente deturpata con una tecnica, anche vocale, ereditata da Captain Beefheart.
Tralascio, non per pudore, i commenti sulla deliziosa copertina, sul nome della band e sui testi. Mi limito semplicemente a ricordare le sghignazzate che mi feci da giovane in compagnia dei miei amici, ed a consigliarvi di non farvene sfuggire i particolari. 

lunedì 27 maggio 2024

Confusion is Sex - Sonic Youth (voto: 6,5)


Lo confesso: quei ragazzi della medio piccola borghesia che, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, si aggiravano per le strade e i locali di tendenza newyorkesi unendosi ai randagi autentici, ai ribelli per necessità, agli emarginati che nella musica cercavano un’occasione di riscatto personale…Beh, insomma, quei ragazzi come Thurston Moore e Kim Gordon, non mi erano affatto simpatici. Li trovavo finti e altezzosi in quei “matrimoni bianchi” con le Lydia Lunch di turno, sulle quali rovesciavano il loro bagaglio culturale e le conoscenze tipiche di chi ha potuto concedersi scuole non basse. Molto meglio la genuinità proletaria ed il primitivismo dei gruppi punk inglesi e americani, e la violenza dell’hardcore californiano; perfino le borghesissime sperimentazioni di Eno e Fripp, in assenza di maschere suburbane, mi apparivano più sincere.
Lo confesso: ancora oggi la penso così. E quando m’imbatto in un vecchio video in cui i SONIC YOUTH torturano le loro Fender Jazzmaster con arnesi di ogni tipo, non riesco a trattenere un moto di stizza.
Eppure quei suoni mi affascinarono e mi affascinano, generando un corto circuito tra la mia razionalità repulsiva ed il mio istinto così maledettamente accogliente.
Forse l’arte è sempre dannatamente borghese, come qualcuno ha drasticamente affermato, oppure c’è spazio, c’è speranza per qualcos’altro?
A questa domanda non ho ancora trovato risposta.
È il 1983. Esce il primo album della band, preceduto da due EP che ne avevano già evidenziato il credo. Il disco si apre con (She’s in A) Bad mood, compendio sufficientemente esaustivo delle sperimentazioni chitarristico/rumoristiche di Moore. Protect me to you, cantilenata volutamente fuori tono da Kim Gordon,  si fa apprezzare per l’atmosfera funerea e per gli spazi vuoti lasciati da una batteria che fa scarso ricorso ai cimbali, liberando semmai figure vulcaniche che sembrano scaturire da una sorta di apnea ritmica. Shaking hell è invece più composita e si dipana attraverso tre diversi movimenti, l’ultimo dei quali vede la voce di Kim impegnata in un riuscito e drammatico ricalco del Jim Morrison più teatrale.
Degna di nota è anche l’iper caotica Inhuman, in cui la voce di Moore sembra uscire da un megafono distorto per poi perdersi in un pozzo sonoro disarticolato in cui basso e chitarra pizzicano ossessivamente e all’unisono un’unica nota. Altrettanto valida The world looks red, veloce e quasi orecchiabile, introdotta da un giro di basso alla Tina Weymouth e proseguita dal solito pandemonio chitarristico e dal cantato di Moore, graffiante e ossessivo. Confusion is next riprende il clima marziale di Protect me to you, salendo man mano d’intensità fino all’orgasmo convulso ed infinito dell’effetto Larsen più potente dell’intero album. Making the nature scene ha connotati tribali che ricordano i primi Pere Ubu; Lee is free è un concentrato di campane che non sanno né di festa né di morte e, proprio per questo, risultano fascinosamente ambigue; Kill yr. idols ha tutto il primitivismo degli Stooges, anche se Moore non è Iggy Pop e si sente; Brother James evidenzia un ottimo lavoro percussivo impreziosito dai latrati delle chitarre e di Kim Gordon (senza offesa). L’album si chiude con Early American, sorta di rito propiziatorio che si chiude col suggestivo canto nichilista di Kim: “…nothing here but a savage blur”.
Confusion is Sex è un disco profondamente nichilista che getta le basi e detta i canoni del noise per le generazioni future. Piaccia o non piaccia, la lezione consiste nel dichiarare definitivamente morto il punk pur riconoscendone i meriti storici. La nuova musica ha ora il compito di rappresentare al meglio il rumore, unico fattore caratterizzante della società post industriale ed insieme metafora della confusione parossistica che si è ormai definitivamente impadronita delle nostre menti.


sabato 22 settembre 2012

THE NIGHTFLY - Donald Fagen (voto: 7,5)

The Nightfly è il disco perfetto.
Lo è per vari motivi, compresi quelli strettamente personali di cui vi darò presto conto. Lo è innanzitutto per la straordinaria qualità dell'incisione - totalmente digitale - che ancora oggi lo rende un modello di riferimento per discografici e musicisti di mezzo mondo. Lo è per il timbro autobiografico, disincantato e al tempo stesso sognante, con cui un Fagen nelle vesti di speaker radiofonico degli anni '50 immortala un futuro prossimo carico di fiducia nella scienza, nelle relazioni interpersonali, nell'affermazione eterna di quel sogno americano che il protagonista sta vivendo al suo apice storico, diffondendo segnali musicali notturni ad una cittadina della Lousiana,  Baton Rouge, che immaginiamo fatta di piccole case con luci, radio e speranze perennemente accese. Lo è per la sua struttura quasi concept che non compromette - anzi esalta - la straordinaria autonomia di ogni singolo brano, ogni singola gemma incastonata in questo 33 giri in cui Jazz, Pop e Rock sono una cosa sola. Lo è per l'amalgama delle sonorità prodotte da un pugno di straordinari musicisti che voglio elencare uno ad uno per non incorrere in un vero e proprio reato d'omissione: 
Dave Bargeron - trombone, euphonium, horn, background vocals
Michael Brecker - tenor saxophone
Randy Brecker - trumpet, flugelhorn
Larry Carlton - guitar
Ronnie Cuber - horn, baritone saxophone
Rick Derringer - guitar
Frank "Harmonica Frank" Floyd - background vocals
James Gadson - drums
Ed Greene - drums
Gordon Grody - vocals, background vocals
Anthony Jackson - bass
Steve Jordan - drums
Steve Khan - acoustic guitar
Abraham Laboriel - bass
Daniel Lazerus - background vocals
Will Lee - bass
Hugh McCracken - guitar, harmonica
Leslie Miller - background vocals
Marcus Miller - bass
Rob Mounsey - synthesizer, horn, keyboards
Roger Nichols - percussion, special effects
Michael Omartian - piano, keyboards, electric piano
Dean Parks - guitar
Greg Phillinganes - synthesizer, piano, keyboards, electric piano, clavinet, synthesizer bass
Jeff Porcaro - drums
Chuck Rainey - bass
Zachary Sanders -background vocals
Valerie Simpson - background vocals
David Tofani - horn, alto saxophone
Starz Vanderlocket - percussion, background vocals
Paul Shaffer - organ
Qualche bastian contrario si è limitato ad etichettare il disco come troppo perfetto, evidentemente per carenza di argomentazioni a sostegno di una tesi improponibile e suicida. Improponibile perché l'eccessiva perfezione si può addebitare ad opere stilisticamente perfette ma prive di anima, non certo ad un disco in cui l'ispirazione, la poesia e la straordinarietà della sintesi sono ai massimi livelli e la brillantezza della "confezione stilistica" è solo e soltanto il giusto tributo a così tanta sostanza.
E' possibile, anzi doveroso, sgranare il disco nei singoli brani che lo compongono anche se ognuno di essi è parte di un tutto che va ascoltato per intero, senza mai riprendere fiato. La magia sincopata e lucente di I.G.Y. lascia il posto al ritmo più oscuro e governato a stento di Green Flower Street, con i suoi break inarrivabili. Ruby Baby è l'unico brano non scritto da Donald Fagen ma non per questo di secondo piano. Qui il synth fa uno straordinario ed accattivante lavoro sui toni ultra-bassi ed il sax chiude il brano in un modo tale che sembra chiedere agli ascoltatori Come mai siete ancora seduti? Il primo lato si chiude con Maxine, capolavoro romantico in 12/8 introdotto da un pianoforte ovattato e struggente. New Frontier apre la seconda parte descrivendo con ironia ed umorismo l'incubo atomico di quegli anni meravigliosi in cui perfino l'imminente olocausto veniva vissuto in un'atmosfera da Happy Days. Il brano che dà il titolo all'album è una riflessione malinconica ed autobiografica fatta a microfoni aperti ed introduce i due brani finali che sembrano essere quelli trasmessi dalla fantomatica radio W.J.A.Z. di cui Larry The Nightfly è l'anfitrione.
Quando questo disco uscì (1982) , il sottoscritto era musicalmente imbevuto di Prog-Rock ed a stento accettava il nuovo percorso intrapreso dalle falangi del punk e della new-wave, si riconosceva a malapena nella direzione intellettuale e cocainica dei Talkin' Heads e cominciava a sposare il minimalismo moderno di Fripp, Eno e Gabriel, vere ancore di salvataggio difronte alla precoce tentazione di salutare l'intero panorama musicale e sotterrarsi in un dolce passato fatto di soluzioni superate e prive di sbocchi.
The Nightfly e Donald Fagen, ingiustamente snobbato all'epoca degli Steely Dan, funsero da catalizzatori per un'apertura dei miei orizzonti verso il jazz ed il soul e la musica tutta con i suoi infiniti stili e colori.
Ancora adesso, a distanza di trent'anni, mi capita di riascoltare Maxine, chiudere gli occhi e pensare come si possa esprimere l'idea del viaggio verso un luogo indefinito in compagnia di una senorita in jeans and pearls, meglio di come abbia fatto Donald Fagen in quel lontano 1982.

venerdì 9 marzo 2012

PETER GABRIEL IV - Peter Gabriel (voto: 8)



Il rock era già morto da un pezzo.
Orde di new romantics e post decadenti si affrettavano a dare continuità ad un filone ammuffito e nauseabondo. Punkettari e post-punkettari strombazzavano la loro rabbia di plastica nelle orecchie arrugginite dai vecchi brani dei Velvet Underground. Sintetizzatori e drum-machines promettevano l'oscurantismo imminente, un po' come facevano i rockabilly coi loro bananoni anni cinquanta a testimoniare l'ineluttabilità dell'imitazione dei vecchi padri.
Di fianco a questa folla impazzita e privata della bussola creativa, i vecchi soloni avevano iniziato ad autocelebrarsi negli stadi e nei grandi teatri: gli Stones macinavano numeri da record inversamente proporzionali alla loro vena creativa; i Pink Floyd si erano lasciati seppellire dalle tonnellate di mattoni che essi stessi avevano costruito e fatto crollare e dalle macerie avevano appena estratto un nuovo leader con tanto di ventiquattr'ore e capello da uomo della City; Neil Young aveva capito quel che stava succedendo e rappresentò il post-wave come qualcosa di piccolo e seriale (le minuscole maschere dei Devo che costruiscono il gigantesco palco destinato a ospitare il Gigante morto) in un evento comunque autoindulgente e privo di speranza.
Quando tolsi il cellophane da quell’album avevo diciannove anni.
Le mie energie e i miei ardori avevano sbocchi molteplici e non tutti confessabili. Di certo la musica era importante e mi dava i brividi ed ero aperto a tutto: in fondo “The lamb” aveva soltanto otto anni e ne potevo ancora tollerare l’ascolto in cuffia a fari spenti per meglio percepire le trame sonore di Banks e le discese vertiginose della voce di Gabriel. 
Già, Gabriel.
Un paio d’anni prima avevo pensato che la sua direzione musicale sarebbe stata la mia. Aveva impiegato pochi secondi per convincermi: una figura di batteria in 4/4 ripetuta all’infinito ed un cigolìo metallico simile ad un lamento avevano fatto breccia nella testa e nel cuore di un adolescente in modo definitivo ed irreversibile, scongiurando una volta per tutte le mille derive romantiche della musica a vantaggio dell’emozione fredda, la carica statica dell’emozione fredda.
Quando tolsi il cellophane da quell’album avevo diciannove anni e la coscienza dell’annullamento delle frequenze alte, del suono vulcanico di una batteria senza piatti, del cuore che può battere forte, insomma, senza sbracare.
Era un giorno di settembre del 1982.
In compagnia della fidanzatina dell’epoca, entrai nel solito negozio di dischi temendo che PG IV non fosse ancora arrivato. Chiesi alla commessa ciò che desideravo e lei, con la medesima indifferenza che aveva ostentato al precedente cliente che le aveva chiesto un disco di Springsteen, mi porse il mio disco.
Altro non posso dirvi. Ogni esperienza è una storia a sé.
Se a qualcuno di voi è capitato di acquistare PGIV in un lontano settembre di trent’anni fa, mi piacerebbe sapere se quel giorno anche la sua vita è cambiata. 
O forse, in fondo, neanche questo m’interessa più di tanto.