martedì 7 maggio 2013

Pezzi di vetro e la Vergine delle Rocce

E se vi dicessi che i versi di "Pezzi di vetro" sono un concentrato di misantropia e misoginia? 
Il fascino di De Gregori, del giovane De Gregori, sta nel tenere nascosto   un amaro giudizio sull'umanità. Il suo è un pudore che si veste di ermetismo e ti abbaglia con l'incandescenza delle immagini, poetiche e non decodificabili.
Avete presente i quadri più celebrati della storia della pittura? Mi viene in mente la Vergine delle Rocce con i suoi occulti riferimenti massonici oppure la figura demoniaca che fa capolino fra i seguaci di San Benedetto nel dipinto dell'Aliense esposto nella basilica perugina.
I grandi artisti nascondono la verità dietro rappresentazioni a prima vista celebrative: una verità, molto spesso , di segno diametralmente opposto.
Così Pezzi di Vetro, che a primo acchito suona come una struggente storia d'amore con tutte le magie ed il  carico di materia sognante che accompagnano da sempre la descrizione di questo sentimento, fa parte di quelle opere che come la Vergine delle Rocce celano una realtà ben diversa: la messa a nudo della sterilità della fascinazione maschile e l'assoluta incapacità femminile di andare oltre la facciata dell'amore.
"L'uomo che cammina sui pezzi di vetro
Dicono ha due anime e un sesso
Di ramo duro il cuore".
La figura maschile viene subito dipinta come illusoria: non c'è magia che non nasconda un trucco, come quella dell'astrologo, del cartomante ed appunto dell'uomo che cammina sui pezzi di vetro. Ed infatti, come sempre vuole la leggenda popolare, quest'uomo ha due anime. E' Apollo e Dioniso, Eros e Thanatos. De Gregori mette in scena lo spettacolo dell'amore: l'uomo ne è il protagonista unico; spettatrice, la donna. "Dicono ha due anime e un sesso"...Chi lo dice? Chi lo pensa? È lei ad attribuire all'uomo un sesso solo (desiderio di monogamia) ed un cuore di ramo duro. La donna confonde lo spettacolo di magia con la realtà perché non può o non vuole accettare  la presenza di trucchi. Nel gioco della seduzione l'uomo è una divinità, non un prestigiatore. Dalle mie parti, in Emilia, non a caso le donne chiamano il loro innamorato IL MAGO.
Ecco dunque chi sono i protagonisti di questa storia al momento di entrare in scena: un prestigiatore ed una spettatrice infatuata, incapace di vederlo nella sua dimensione reale.
Prima di proseguire, vorrei soffermarmi sulla finezza poetica del verso che stiamo analizzando: cos'è "di ramo duro"? Il sesso, il cuore o entrambi? Troppo pudico De Gregori per dire chiaramente che nell'immaginario della donna innamorata c'é anche posto per una virilità esplosiva oppure è la donna stessa a non volerlo urlare ai quattro venti?
Andiamo avanti.
"E una luna e dei fuochi alle spalle
Mentre balla e balla
Sotto l'angolo retto di una stella".
La cecità della donna continua a mietere luoghi comuni e ad allontanarsi dalla realtà: eccola ora nell’atto di disegnare una scenografia poetica e a collocarvi la sua calamita sentimentale, l’eterno ballerino in armonia perfetta con l'universo.
"Niente a che vedere col circo
Nè acrobata nè mangiatore di fuoco
Piuttosto un santo a piedi nudi
Quando vedi che non si taglia già lo sai
Ti potresti innamorare di lui
Forse sei già innamorata di lui".
La dimensione magica ubriaca la donna e la conduce al rifiuto della natura teatrale della scena di cui l’uomo-pavone è attore protagonista. La necessità di abbandonarsi al culto della divinità è più forte di mille ragioni.
"Cosa importa se ha vent'anni
E nelle pieghe della mano
Una linea che gira
E lui risponde serio 'è mia'
Sottintende la vita".
La lettura della mano è l'occasione per riaffermare il carattere divino dell'uomo, ormai pienamente soddisfatto della riuscita del suo gioco di seduzione: nella mia mano è scritto il mio destino, sembra dire, ma io sono una divinità, nulla può sconfiggermi; io sono in grado di sottrarmi al fato.
"Non conosce paura
L'uomo che salta e vince sui vetri
E spezza bottiglie
Ride e sorride perché
Ferirsi non è possibile
Morire meno che mai
E poi mai".
Qui l'autocompiacimento per la consolidata dimensione divina è al suo apice. L'uomo si sente immortale grazie alla soggiogazione amorosa della donna. Ride e sorride compiaciuto della trasformazione dei suoi trucchi in magia.
"Lui ti offre la sua ultima carta
Il suo ultimo prezioso tentativo di stupire
Quando dice 'È quattro giorni che ti amo
Ti prego non andare via
Non lasciarmi ferito'".
Proprio l'apice dell'amore è anche però il suo triste epilogo: senza soluzione di continuità, De Gregori passa a rivelare la vera natura dell'amore, la sua finzione, il suo trucco. È come se strappasse l'abito all'improvviso, lasciando la divinità nuda e dunque umana, con tutte le sue miserie in perfetta evidenza. La magia è scomparsa, ora c'è solo la rincorsa disperata e miserabile dell'uomo verso l'oggetto del suo amore perduto.
Perché è finito l'amore? La donna si è accorta del trucco?
Neanche per sogno.
"E non hai capito ancora come mai
Gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai
Però stai bene dove stai".
La donna ha sì sentito svanire la magia ma non ha capito affatto ciò che le è accaduto. È pronta per vivere una nuova infatuazione ed una nuova sconfitta senza consapevolezze, senza costrutto, senza senso.
L'uomo e la donna sono per De Gregori figure comiche ed affatto simbiotiche. La loro unione nasce e muore nell'arco di quattro giorni e si nutre di manipolazione, ebetudine, incoscienza e distruzione.
Eppure, ogni volta che la ascoltiamo, questa canzone ci commuove profondamente.
Ci si può dunque commuovere anche difronte al cinismo, all'anticelebrazione, alla messa in mora dei sentimenti?
La grandezza del giovane misantropo Francesco De Gregori sta proprio in questo: farci riscoprire la pietas nel suo significato originale ed antico. Ci rende compassionevoli difronte alla caducità delle cose ed alla miserabile finitezza dell'essere umano. Lo fa in un modo sublime, nascondendo il significato della sua visione dei rapporti umani dietro il velo incantatore di una poesia che solo all'apparenza ci racconta qualcos'altro.
Come la Vergine delle Rocce, appunto.










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