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venerdì 31 maggio 2024

The end of the game - Peter Green (voto: 7)


Quella di Peter Green sembrava una storia destinata a concludersi tragicamente, tanto furono turbolente le sue abitudini di vita: LSD e non solo lo avevano condotto nel 1977 ad un ricovero psichiatrico lungo e doloroso, ed il suo percorso artistico sembrava essersi arrestato per sempre. Fortunatamente si riprese e ricominciò perfino a comporre e suonare, da solo e poi in gruppo con gli Splinter Group, fino al 2003.
Sono partito descrivendo il ramo finale della parabola di questo straordinario chitarrista ed autore perché ho voluto dare dignità alla fase più oscura della sua esistenza, quella che nessun giornale e nessuna rivista specializzata racconta. La stella di Peter Green era però brillata forte nel 1967, anno in cui fondò i Fleetwood Mac, con i quali incise i primi quattro album prima di dedicarsi alla carriera solista che partì nel 1970 proprio con la realizzazione di The end of the game.
Dici Peter Green e pensi automaticamente al “blues bianco”, il movimento che nella seconda metà degli anni sessanta nacque in Inghilterra con il lodevole intento di riportare alla luce le radici blues del rock. Insieme a John Mayall ed i suoi Heartbreakers (di cui per un breve periodo lo stesso Green fece parte) ed ai Cream di Baker, Bruce e Clapton, Peter fu fra i pionieri e gli anticipatori di un sound che portò alla nascita dell’hard rock dei Deep Purple e dei Led Zeppelin, i quali non fecero altro che estremizzare in chiave più dura la lezione dei maestri.
The end of the game è però qualcosa di più e di diverso dallo stile e dai contenuti del blues bianco e si muove semmai in un territorio tribale e rivelatore delle viscere terzomondiste del rock, pur nelle atmosfere blues e jazz che ne costituiscono l’imprescindibile contorno. La scena è dominata dal vibrato e dal wah wah della Gibson di Green, capace di disegnare paesaggi sonori di straordinaria intensità. La lunga ed introduttiva Bottoms up ne è senz’altro uno degli esempi. La successiva e breve Timeless time è invece un momento di riflessione in cui la chitarra sembra interrogarsi su quale direzione prendere senza mai giungere ad una conclusione definitiva; Descending scale è la meraviglia che non ti aspetti: prima uno scarno botta e risposta tra un pianoforte e un organo, con l’elettrica che interviene a far esplodere gli animi; poi l’intermezzo jazz avanguardistico che cresce d’intensità come il break orchestrale di A day in the life in Sgt. Pepper, trascinandoci in una jam session che ha nel basso il protagonista assoluto.
In realtà tutti i brani presenti in questo disco puramente strumentale sono piccole gemme disposte in modo da formare un disegno unitario la cui chiare di lettura principale è il rock inteso come punto di convergenza di mille generi e mille anime, nessuna esclusa. Per portare a termine un’operazione del genere son necessarie una cultura musicale ed una sensibilità artistica fuori dal comune. Ma stiamo parlando di Peter Green, non di un musicista qualsiasi. 

sabato 25 maggio 2024

Absolutely free - Frank Zappa (voto: 9)

 


Ladies and gentlemen, the President of the United States.
Inizia così ABSOLUTELY FREE, secondo album del genio di Baltimora con le Mothers of Invention uscito nel 1967.

Siamo in piena era psichedelica, di libertà espressiva, di rottura di schemi e tradizioni, di contestazione. Siamo in quella fase della storia in cui l’energia sgorga come lava dal cratere di un vulcano rimasto inerte da tempo immemorabile. Le direzioni che prende sono molteplici ed imprevedibili: dalla sperimentazione estrema dei Red Crayola alla trasfigurazione orrorifica del blues a cura di Captain Beefheart, dall’acid folk dei Jefferson Airplane ai bozzetti lisergici di Syd Barrett.

In questo tumultuoso e variegato panorama si staglia al di sopra delle parti il magmatico mondo musicale di Frank Zappa, capace di condensare e poi superare tutte le predette istanze e di restituirci una fotografia pressoché definitiva di quell’incredibile momento storico.

Zappa, autoproclamatosi nuovo presidente degli USA, distrugge con mano pesante di boia ogni tipo di censura e di guerra. Lo fa attraverso l’uso di testi altamente corrosivi e, soprattutto, con lo sciorinamento di tutti i paradigmi musicali conosciuti: dal valzer orchestrale al vaudeville, dal rock più classico alla black music, dal jazz al progressive, fino alle vette avanguardistiche della musica atonale e “rumoristica”. Ciò che sorprende è che tutte queste forme espressive sono spesso concentrate all’interno di un unico brano.

È inutile sottolineare la straordinarietà dei musicisti delle Mothers perché questa è nota perfino a chi conosce la musica soltanto di striscio, così come è leggendario il piglio dispotico di Zappa nei loro confronti non solo per quel che riguarda l’esecuzione dei brani ma anche e soprattutto per l’intolleranza assoluta all’uso di droghe. Una volta Neil Young affermò di non averne bisogno per cogliere l’allucinazione della vita, ed infatti molti testi del grande vecchio canadese confermano l’assunto: penso soprattutto a Last trip to Tulsa e a Don’t let it bring you down. Nel caso di Zappa si va addirittura oltre: non solo i testi, la musica stessa è la rappresentazione di uno stato della mente meravigliosamente fuori controllo.  Plastic people, con la sua particolarissima mescolanza di spoken words e musica orchestrale inframmezzate da un accenno di valzer lisergico, dà la misura di questa espressività senza catene; ma è solo un esempio, perché di fatto tutti i brani del disco sono inni alla libertà.

Eppure il modo in cui Zappa si esprime nasconde una delle più incredibili contraddizioni della storia della musica: se infatti da un lato l’effetto è anarchico e trasuda imprevedibilità infinita, dall’altro il processo creativo è iper strutturato, certosino, maniacale. La musica di Zappa è figlia di assemblaggi sublimi e di stratificazioni apparentemente contraddittorie; perfino quando sembra lanciarsi in un assolo di chitarra all’insegna dell’improvvisazione più genuina, come in Invocation and ritual dance of the young pumpkin, è sufficiente prestare attenzione all’intricato lavoro dell’orchestrazione sottostante per accorgersene.

È doveroso ricordare che il disco trasuda sesso da ogni poro, ed è un sesso talmente volgare e sfrenato da risultare artistico: penso soprattutto alla piccola opera in tre atti The Duke of Prunes/Amnesia vivace/ The Duke regains his chops, in cui tra prugne e formaggio si descrivono l’eccitazione e l’atto sessuale con tecnica degna della pornografia cinematografica degli anni settanta, ma in un clima musicale a metà tra il sogno e l’incubo, il lirico ed il cacofonico. Il testo è ripetuto più volte, a ritmo progressivamente accelerato, come si conviene al più classico dei rapporti sessuali che passa dalla beatitudine statica e contemplativa iniziali alla concitazione sempre più marcata, per raggiungere infine un grottesco culmine invocativo (oh cheesy fat, oh cheesy fat…).

Per finire, dato che non m’interessa entrare in modo analitico nella disamina dei singoli brani né dilungarmi sulla tecnica vocale di Ray Collins o sul modo in cui Bunk Gardner usa i legni, solo due parole sull’annosa questione della difficoltà d’ascolto dei dischi di Zappa. Sì, la totale assenza di regole, la libertà assoluta, la messinscena di una spiritualità anarchica sempre e comunque fuori contesto sono difficili da comprendere ed accettare da noi persone comuni abituate al conforto degli schemi e delle regole. È dunque più facile che un pazzo ne trovi semplice l’ascolto e, ahimè, di pazzi in giro ce ne sono davvero pochi. Non resta dunque che provare e riprovare, aprirsi lentamente alla libertà, uscire dal seminato, sconfinare, scavallare, andare volutamente fuori tema: essere sempre e comunque ABSOLUTELY FREE.



sabato 18 maggio 2013

We are Paintermen - The Creation (voto: 6)


The CreationKenny Pickett (voce), Eddie Phillips (chitarra solista), Mick Thompson (chitarra ritmica), Bob Garner (basso) e Jack Jones (batteria). In una parola sola: The Creation.
Il gruppo è inglese ma gode di grande popolarità soprattutto in Germania. Al loro attivo una serie di singoli di successo ed alcune cover di brani famosi. Perchè non provare a fare un album?, si chiesero i quattro ragazzi britannici.
Detto, fatto.
Esce cosi nel 1967 We are paintermen e  va subito detto che l'approccio a questo disco deve essere leggero e ricco di tatto: non sempre da un disco è lecito attendersi meraviglie innovative. C'è chi fa musica per il solo gusto di farla, per amore viscerale verso il rock, per il solo gusto di suonarlo. E' già tanto. Le mode classificatorie che impongono etichette preconfezionate ai musicisti insistettero nel considerarlo un disco di Garage-Rock o Psichedelic-Rock. Diciamo che la distanza che separa The Creation da gruppi più radicali e sperimentali quali i Soft Machine ed i Pink Floyd, è radicale. Si tratta in realtà di sano e sanguigno rock'n'roll, punto e basta. Ed infatti Cool Jerk, con una inusuale introduzione di piano rock, ci mette subito in guardia sui contenuti del disco: giro di basso classico, chitarra elettrica secca e batteria in 4 per la cover di un brano scritto da Donald Storball nel 1966 e portato al successo da The CapitolsMaking time è trascinante e volutamente rozza per esaltare la voce graffiante di Kenny Pickett. La chitarra elettrica di Eddie Phillips è letteralmente torturata da un archetto ed il risultato è sorprendente. Anche Through my eyes si segnala per la modernità di un arrangiamento in cui la batteria domina sul resto degli strumenti, prima che la chitarra di Phillips si segnali con un intermezzo solistico essenziale e di grande effetto. Ed eccoci alla rivisitazione di Like a rolling stone. Lo stesso Dylan ne apprezzerà la lucidità e si soffermerà sulla brillantezza dell'esecuzione vocale: la voce di Pickett non assomiglia affatto a quella di Bob e, proprio per questo, impone un nuovo marchio - affatto secondario - sulla grandezza di questo brano. Anche Can I join your band, col suo riff allegro e veloce, è di buon impatto e lo stesso dicasi per la successiva Tom Tom. Degnissima di nota è If I stay too long, cadenzata e splendidamente cantata da Pickett. Riuscitissima anche la cover di Hey Joe, se non per l'ineguagliabile alchimia musicale di Hendrix & co., sicuramente per l'interpretazione di Pickett che nel finale improvvisa una strofa parlata con voce che ricorda quella di Lou ReedPainter Man ha le potenzialità di una hit con un ritornello orecchiabile e pestato a colpi di basso e batteria. Ed arriviamo a How does it feel to feel, sporca e ruggente da far rabbrividire gli Stones. Una vera gemma incastonata in un album bellissimo. Sylvette, strumentale,  è introdotta da un riff potente ed essenziale, poi si svilupa velocissima su una linea di basso incalzante dove trovano terreno fertile la chitarra elettrica di Phillips e quella ritmica di Mick Thompson, mentre un lontano pianoforte sembra battere il tempo col resto della squadra. I am the walker si segnala per i suoi break improvvisi e le aperture quasi melodiche, anche se il brano è tiratissimo. Atmosfere vagamente beatlesiane per Ostrich man, con tanto di slide guitar e sottolineatura di clavicembalo. Sweet Helen ha connotazioni melodiche ed introduce alla traccia più originale dell'album: un'apertura classica ed orchestrale che sembra sfociare in una valle psichedelica ed invece evolve come una ballata in cui i violini mantengono il legame col climax iniziale. I'm leaving parte con un veloce giro di basso e mette poi in risalto il drumming di jack Jones, mai sopra le righe, essenziale e contrappuntato da una chitarra elettrica che gli si mette compostamente al servizio. Chiudono in bellezza l'album Work all day Going down, confermando la bravura di questo quartetto di cui fu fan perfino Pete Townshend degli Who: una garanzia da tener presente quando deciderete se ascoltare o meno questo disco.

martedì 14 maggio 2013

Trespass - Genesis (voto: 6,5)

La discografia dei Genesis, quella che va da Trespass a Duke coprendo l'intero decennio degli anni settanta, è il manifesto di un'epoca. Dopo la sbornia consumistica degli anni cinquanta e quella rivoluzionaria dei sessanta, ciascuna a modo suo dominate da una nota profonda di estroversione e di esaltazione sociale, il decennio successivo impose un ripiegamento sulla dimensione individuale, riflessiva. Nacquero così quelli che Bowie chiamò “i figli dell’età silenziosa”.

I figli dell’età silenziosa
Stanno in piedi su piattaforme
Sguardo vuoto e taccuini
Siedono nelle ultime file
dei confini della città
Giacciono nei letti venendo
e andando con gran facilità
I figli dell’età silenziosa
Misurano a passi le loro stanze
grandi come una cella
Fioriscono per un anno o due
poi fanno una guerra
Frugano nei loro pensieri da un soldo
Poi decidono che non si sarebbe dovuta fare
I figli dell’età silenziosa
Ascoltano canzoni di Sam Therapy e King Dice
I figli dell’età silenziosa
Rimorchiano nei bar
e piangono una volta sola
I figli dell'età silenziosa
Fanno l'amore solo una volta
ma sognano e sognano
Non camminano, scivolano solamente
dentro e fuori la vita
Non muoiono mai,
Un giorno, semplicemente,  si addormenteranno. 

I muri, dunque.
L'incomunicabilità in quegli anni elesse il muro di Berlino simbolo di una generazione invasa da propositi di rinuncia. 
Quel panorama fu cantato in mille modi: ci fu chi si appoggiò ad una chitarra e ad un'armonica per sottolinearne la dimensione intimista e solitaria, chi lo aggredì con le sonorità elettriche e distorte accentuandone la dimensione disperata metropolitana e suburbana, chi lo interpretò col linguaggio del non senso per metterne meglio a fuoco il carattere non parlato, di rinuncia al dialogo. 
Nessuno dei suddetti approcci ha nulla a che vedere con Tresspass. 
Di quell'oceano di silenzi i Genesis non furono cantori, bensì l'anima stessa.
Chiusi nelle nostre stanze simili a celle, respirando il piombo di quegli anni in cui le parole avevano irrimediabilmente lasciato il posto alle pistole e alle bombe, scartavamo gli album colorati di Paul Whitehead per tentare una fuga e ritrovare noi stessi fra gli accordi di mellotron, le leggende medievali e le improbabili maschere di Peter Gabriel, dietro a ciascuna delle quali si nascondeva un'allusione, un'allitterazione, un ossimoro oscuro come la realtà in cui eravamo immersi.
Genesis uguale evasione, dunque?
Neanche per sogno. Quanto meno non nell'accezione negativa che di solito attribuiamo al termine.
Il punto è che la realtà dei giovani di quegli anni era proprio l'evasione stessa. Evasione dal bianco e nero delle TV che guardavano i nostri genitori, evasione dai contesti di gruppo che avevano dominato il decennio precedente e restaurazione di una dimensione individuale e romantica, da vivere tra quattro mura, possibilmente dopo le tre dei pomeriggi autunnali, quell'orario - come diceva Sartre - in cui è troppo presto per fare qualcosa e troppo tardi per farne altre.
Trespass arrivò nelle case di alcuni nel 1970, affascinati più dalla straordinaria copertina che si apriva a libro che dalla fama di un gruppo che due anni prima aveva esordito con un album insignificante, un album che vendette pochissime copie e fu temporaneamente relegato all'oblio: From Genesis to Revelation. Aveva la copertina nera a busta e conteneva canzoni piuttosto evanescenti che pagavano dazio alla scena musicale dell'epoca, blues e pop, senza contribuire alla sua evoluzione.
Trespass è una miscela di colori delicati, un quadro astratto con prevalenza di verde e azzurro. Le lunghe parti strumentali (Stagnation) sembrano concepite per un ascolto ad occhi socchiusi e per anime disposte a confrontarsi con l'assenza di forme sicure, alla ricerca di una meta salvifica e senza tempo, dominata dall'immaterialitá ed immersa fino in fondo in un liquido onirico, quasi amniotico. 

"E quando (secondo l'ordine in cui si svolgeva quel piccolo corteo, meraviglioso perché vi erano accostati gli aspetti più diversi, tutte le gamme di colore vi comparivano una accanto all'altra, ma che era confuso come una musica in cui non avessi potuto isolare e riconoscere al passaggio le frasi, distinte ma dimenticate subito dopo) vedevo emergere un ovale bianco, degli occhi neri, degli occhi verdi, non sapevo se fossero gli stessi che mi avevano deliziato già un momento prima, non potevo metterli in rapporto con una data fanciulla ch'io avessi separata dalle altre e riconosciuta. E quest'assenza, nella mia visione, del distacco che avrei presto stabilito fra loro, propagava attraverso il gruppo un ondeggiamento armonioso, la traslazione continua di una bellezza fluida, collettiva e mobile". 

Proust descriveva così le "fanciulle in fiore", e lo stesso si potrebbe fare per questo album. Trespass ha infatti tutta la freschezza e l'incanto della bellezza adolescenziale, quella in cui il fascino non è legato alle peculiarità individuali ma si sprigiona dai tratti comuni. Così i sei brani di Trespass non brillano ciascuno di luce propria ma affascinano mescolandosi, quasi sovrapponendosi l'uno all'altro fino a formare un corpo unico senza una forma precisa, ingenuo come il disegno colorato e indecifrabile di un bambino. 
Impossibile stabilire gerarchie di valore tra un pezzo e l'altro: se l'incedere marziale di The Knife dà autonomia al brano rispetto alla "macchia" impressionista complessiva, non per questo lo si può classificare come pezzo di punta (anche se i Genesis lo usarono spesso come brano di chiusura in concerto). Al recensore non interessa in questo contesto scomporre ed analizzare l'album, quanto piuttosto rilevarne le dominanti e dunque sottolineare il complessivo lavoro di tessitura del mellotron e delle tastiere in generale di Tony Banks, l'approccio poetico ed al tempo spesso ingenuo della chitarra di Anthony Phillips, l'imperizia di John Mayhew nell'uso della batteria soprattutto al cospetto del suo imminente successore. 
L'anima di questo lavoro sta comunque nell'ingenuitá quasi fanciullesca con cui il gruppo sperimenta paesaggi sonori che troveranno maggior definizione più avanti, nella fragilità dell'impalcatura musicale che sembra essere costantemente in procinto di crollare rimanendo invece miracolosamente intatta fino alla fine, nella convinzione nel proprio lavoro che il gruppo fa trasparire da ogni singola nota e passaggio. 
Questo disco spalancò le porte del sogno e chiuse quelle della realtà. Che piaccia o no, fu come se qualcuno avesse detto: "Ok, ragazzi. Chiudete gli occhi e le bocche. Lo spettacolo sta per iniziare". 
Ecco perché noi siamo i figli dell'era silenziosa. Basta con l'impegno sociale e con i comizi improvvisati perfino nei bar. I Genesis ci regalarono la meravigliosa opportunità di recuperare la nostra dimensione individuale più profonda, quella che fu per decenni immolata sull'altare del collettivismo. 
Da Trespass in avanti imparammo l'ascolto solitario della musica, poiché qualsiasi interferenza avrebbe reso fastidiosa quella musica. Provate ad ascoltare Stagnation o Dusk mentre chiacchierate con qualcuno. La musica vi sembrerà insopportabile, come l'umore di un amante che si sente tradita e rivendica il diritto alla monogamia. 
Da Trespass in avanti le nostre stanze diventarono celle e la chiave fu buttata via senza che nessuno di noi nei dieci anni successivi avesse voglia di cercarla. 
Quella musica non ci rese insensibili agli avvenimenti della realtà circostante, cambiò semplicemente la scala delle priorità nel nostro faticoso percorso di autorealizzazione. 
Ancora oggi, negli occhi degli ultracinquantenni che quarant'anni fa decisero di vivere in cella, puoi intravedere la luce della riflessività, l'abitudine a scavare nel profondo, un pizzico di aristocratico disprezzo verso le cose urlate a squarciagola. Ancora oggi, questi attempati signori dell'era silenziosa hanno la tendenza a parlare di cose importanti, nascondendo talvolta - in omaggio alle bizzarrie linguistiche del vecchio mentore di Cobham - doppi ed oscuri significati dietro frasi apparentemente innocue. 





venerdì 10 maggio 2013

Surrealistic Pillow - Jefferson Airplane (voto: 6,5)

Il secondo album della band californiana Jefferson Airplane si chiama Surrealistic Pillow e la sua uscita nel 1967 fu un evento. Lo fu un po' perche dopo la brillante prova d'esordio con Jefferson Airplane takes off il gruppo era atteso al varco per la sempre problematica conferma dei secondi lavori, un po' perchè il gruppo aveva subìto alcune modifiche d'organico: il batterista Skip Spence fu sostituito infatti da Spencer Dryden, di estrazione jazzistica (suonò - tra gli altri - con gli Heartbeat di Roy Buchanan); inoltre Signe Toly Anderson fu sostituita al canto da Grace Slick, vocalist straordinaria e dalla forte personalità cresciuta in una famiglia da cui ricevette una buona educazione artistica sin da bambina. White rabbit è un brano composto dalla stessa Grace ben prima del suo ingresso nella band, mentre Somebody to love fu composto dal cognato Darby per il gruppo The great society di cui faceva parte anche la Slick prima di approdare ai Jefferson Airplane.
Ricapitolando, la formazione dei Jefferson Airplane responsabile di questo secondo disco è la seguente: Grace Slick (voce, flauto, pianoforte), Marty Balin (voce, chitarra), Paul Kantner (voce, chitarra), Jorma Kaukonen (voce, chitarra solista e chitarra ritmica), Jack Casady (basso) e Spencer Dryden (batteria). 
Per completare le note di cronaca, prima di accingerci ad analizzare il disco, è bene segnalare la presenza in studio di registrazione di Jerry Garcia, leader carismatico dei Grateful Dead, il quale suggerì il titolo dell'album: "Questo disco assomiglia ad un cuscino surreale", dichiarò il barbuto musicista dopo averne ascoltato i brani.
She has funny cars parte come un treno con la chitarra di Kaukonen in evidenza insieme al drumming preciso e sofisticato di Spencer Dreyden. Le voci si sommano e si rispettano l'un l'altra con un affiatamento sorprendente per un gruppo che ha fatto della mobilità uno dei suoi marchi di fabbrica. Ed ecco la già citata Somebody to love con la sua ritmica accattivante e la voce di Grace Slick a spadroneggiare in un contesto di chitarre ritmiche e basso pulsante e metronomico. L'intermezzo offerto dalla chitarra elettrica di kaukonen nel suo duetto  con la voce della Slick è un inno al lato potente del rock, quello che ti scaraventa nel vortice della danza e ti fa guizzare i muscoli come una scossa elettrica ad altissimo voltaggio. My best friend si appoggia invece al genere country-folk con bella soluzione di cori e soffici controcanti, prima di fingere di scivolare in territorio rock senza mai davvero toccarlo. Today si apre con un arpeggio di chitarra subito alimentato da un tamburello e da un contrappunto di elettrica per poi aprirsi ad un canto dal sapore antico, ben sorretto da una batteria soffusissima e reverberata che tende a crescere nel finale.Comin' back to me è una delle meraviglie dell'album con l'incrocio iniziale di chitarre riflessive e armoniose ulteriormente addolcite dal flauto della Slick e dalla voce di Marty Balin, quasi sospesa su un ponte fatto di accordi semplici e sofisticati nello stesso tempo. Forse Garcia si è ispirato proprio a questo brano quando ha inventato il nome dell'album. 3/5 of a mile in 10 seconds è una rock ballad potente e trascinante in cui è possibile apprezzare il lavoro dei cantanti sui toni acuti, oltre alla chitarra elettrica di Kaukonen, dominante come non mai, a volte distorta, a volte precisa e secca come una lama affilata. D.C.B.A - 25 è invece una ballata in stile pop-folk gradevole ed impreziosita dai contrappunti vocali di Grace Slick, mentre Kaukonen continua il suo preciso lavoro laterale con l'elettrica. Il flauto di Grace introduce la ballata successiva, How do you feel, folk ed in certi momenti vagamente esotica. Embryonic Journey è una cascata di chitarre acustiche, ritmiche ed arpeggiate, quasi ossessive. Tecnica sopraffina. White rabbit inizia quasi come una marcia ed è subito voluttuosa come il tango in cui immediatamente si trasforma, prima che irrompa la voce di Grace Slick a colorarla di sonorità orientali. Qui siamo in un contesto misterioso, lisergico, anche per il testo: "Una pillola ti fa diventare più grande/Ed un'altra più piccola/E quelle che ti dà tua madre non hanno alcun effetto/Prova a chiederlo ad Alice/Quando è alta dieci piedi". Chiude il disco Plastic Fantastic Lover, un rock quasi parlato eppure trascinante e sincopato, con ogni cosa a suo posto: voce, sezione ritmica potente coadiuvata da chitarre ritmiche brillantissime  e dal solito, irrinunciabile lavoro ai fianchi dell'elettrica di Jorma Kaukonen. Senz'altro un modo degnissimo di concludere un lavoro che incontrerà favori di pubblico e di critica.
Se dagli Airplane ci si aspettano sorprese mirabolanti in chiave avanguardistica, si rischia di rimanere un tantino delusi. Non che il gruppo sia attaccato alla tradizione rock e folk come un parassita alla sua preda. Tutt'altro. La band sconfina con classe ed eleganza in territori modernissimi fatti di atmosfere rarefatte ed imprendibili. Lo fa però con un distacco quasi regale, non dimenticando le radici che ne caratterizzano inevitabilmente l'identità musicale. E c'è poi il gusto per gli arrangiamenti, precisi, essenziali, mai sopra le righe. Una dimostrazione di grande eleganza e di tecnica al servizio del cuore. Ecco cosa ci sembra Surrealistic Pillow.

giovedì 9 maggio 2013

Matthew and son - Cat Stevens (voto: 5,5)



Non solo psichedelia, non solo acid rock tra le proposte musicali del 1967. C'è anche chi, come Cat Stevens, non sceglie di tagliare completamente i ponti col recente, melodico passato musicale e di tentarne un recupero in chiave moderna ed originale, grazie al background multietnico e soprattutto ad un'innata sensibilità musicale che gli permette di creare melodie in assoluta semplicità.
Il pregio della "creatività semplice" emerge immediatamente dalla linea melodica del brano che dà il titolo all'album e da quello successivo - I love my dog - caratterizzato da un arrangiamento in cui il violino esalta l'afflato poetico dei versi senza che l'architettura musicale sconfini nel sentimentalismo. Meno riuscita è Here comes my baby, in cui il gioco di rimandi alla gioia con l'uso dello xilofono e l'incedere da marcia quasi country banalizzano una linea melodica che poteva essere sfruttata decisamente meglio. Bring another bottle baby ci conduce verso i lidi dorati della bossa nova e delle sonorità caraibiche. La melodia è accattivante ma anche qui l'arrangiamento lascia un po' a desiderare per l'eccessiva impronta esotica. Molto meglio la linea scarna di Portobello Road in cui la voce ritmica di Cat Stevens disegna un credibile quadro della famosa strada di Londra con l'ausilio della sola chitarra acustica. I've found a love è un brano inutile con un incedere finto marziale che apre ad un ritornello fin troppo romantico e sovraccarico di archi. I see a road vuol essere troppo originale con la sua struttura da barbershop quartet e la voce di Stevens a fare il verso a certi old singers onestamente molto più credibili di lui. Baby get your head screwed on è una divertente marcetta e nulla più, mentre Granny è caratterizzata da una buona linea di basso e da alcune sottolineature di fiati che ci portano quasi in territorio soul. When i speak to the flowers è veloce e beat ma non convince affatto. L'impressione è che Stevens si sforzi di spaziare oltre la naturalezza delle proprie corde emotive che sono consone alle pop ballads e non necessitano di orpelli orchestrali per emergere in tutta la loro ammaliante semplicità. Ed ecco infatti The tramp a confermare l'assunto: chitarra acustica e contrabasso. E la voce di Cat Stevens. Un trinomio vincente per uno dei brani più riusciti dell'album.
Il disco esce in contemporanea con l'opera prima di Roy Harper. Le differenze, oltre che nella diversissima formazione musicale, stanno soprattutto nella maggior consapevolezza ed autonomia artistica del primo rispetto al secondo: Roy Harper non scende a patti con stereotipi musicali più o meno moderni e si limita ad assecondare la propria natura intimista, quasi atemporale. Cat Stevens non ha ancora messo a fuoco le sue caratteristiche e tende a strafare e ad allontanarsi da se stesso, sbandando paurosamente come un pilota alle prime armi. Come on and dance è l'emblema di questo fiasco, così come Hummingbird e la conclusiva Lady nulla tolgono e nulla aggiungono al valore complessiva dell'album.
Si può, dopo quanto detto, riassumere in termini positivi quest'opera prima? La domanda è probabilmente mal posta. Sarebbe meglio chiedersi: Cat Stevens è destinato a crescere? La risposta è sì. Sì, perchè ha dentro di sè l'ingenuità e l'incanto del ragazzino che sorride al mondo, un po' come l'avevano i Beatles prima maniera. Sì, perchè certi brani come Portobello Road, I love my dog e The tramp non nascono al tavolino dei buoni mestieranti della musica ma sono figli di un'emotività artistica genuina e preziosa. Forse da Stevens non è lecito aspettarsi un'opera unitaria, una miscela omogenea in grado di far gridare al miracolo i seriosi puristi del rock più a la page. Le opere della maturità lo condurranno allo sfrondamento dei caratteri musicali che non gli appartengono e ci restituiranno un homo novus in grado di emozionarci e di trascinarci al suono di magiche, ritmiche, essenziali ballate.

venerdì 3 maggio 2013

Sophisticated Beggar - Roy Harper (voto: 6)




Il fenomeno della British invasion, così come con un pizzico di sciovinismo gli Americani definiscono lo sconfinamento in territori musicali a stelle e strisce da parte dei cugini inglesi, non riguarda soltanto l'appropriazione indebita del rock-blues nero ad opera dei nuovi paladini del blues bianco, oppure il più recente fenomeno psichedelico che senz'altro ha origine nella West Coast ma sta assumendo dimensione internazionale anche grazie a gruppi provenienti dalla perfida Albione. Riguarda anche, come nell'esempio che ci accingiamo ad illustrare, il mondo musicale dei cosiddetti songwriters. Con questo termine si indica colui che scrive le proprie canzoni e le canta. Un fenomeno che trova un parallelo col cosiddetto cinema d'autore, in cui l'opera - lungi dall'essere il risultato di un lavoro d'equipe - reca l'impronta fortemente soggettiva del regista, il quale sovraintende a tutte le fasi della realizzazione del film: dalla sceneggiatura alla scenografia, dal montaggio alla fotografia. Non è dunque altrewttanto corretto parlare di canzone d'autore quando ci riferiamo a Bob Dylan o, per stare ad un esempio recentissimo e già trattato da Stanza 51 la scorsa settimana, a Laura Nyro? E Leonard Cohen non ne è forse l'esempio più chiaro?
Quando capita che l'Inghilterra sforni un nome nuovo come quello di Roy Harper che va di diritto ad ingrossare la lista per lo più americana dei songwriters, ci rendiamo conto che il fenomeno della British invasion ha contorni molto più ampi di quelli che solitamente gli si attribuiscono.
Roy Harper è soprattutto un chitarrista di straordinario talento che scrive in prima persona i testi delle sue canzoni. Di lui sappiamo che è un ribelle con alle spalle un'adolescenza tormentata vissuta a fianco del padre e della matrigna, che ha smesso di frequentare la scuola a soli quindici anni per arruolarsi nella Royal Air Force, che è stato successivamente "trattato" con l'elettroschock a causa dell'esaurimento causatogli dalla vita militare. C'è un altro personaggio della scena musicale attuale che condivide con Harper l'esperienza di questa "terapia": Lou Reed. Anche se nel caso dell'artista newyorchese l'iniziativa fu presa dai suoi genitori per tentare di guarirlo dalla sua omosessualità...
Cosa c'è dentro questo disco oltre all'amore per il blues coltivato sin da bambino? Innanzitutto una vera e propria poetica annunciata addirittura dal titolo, sofisticato mendicante, fatta di soluzioni chitarristiche originali ed estemporanee, specchio appunto della vita di Harper fino a questo momento, una vita da vagabondo e da artista di strada, i cui testi lirici ed impressionistI si fondono alla perfezione con gli arpeggi evocativi della chitarra.
L'intero album è dominato dalle sei corde acustiche, dalla voce di Harper e da un sottobosco di sonorità evocative che strizzano l'occhio alle tendenze psichedeliche del momento. Soprattutto l'introduttiva China Girl ne è buona testimone, mentre la successiva Goldfish si limita ad un sognante arpeggio folk e lo sviluppa da cima a fondo senza concessioni alla modernità. Il duetto di chitarre che caratterizza il brano che dà il titolo all'album mette in evidenza le qualità tecniche di Harper come musicista, alle prese con sonorità di matrice indiana padroneggiate con classe ed accompagnate da una voce convincente ed all'altezza del contenuto musicale del brano. Le atmosfere si fanno oniriche con la successiva, eterea My Friend, per poi aprirsi un varco riflessivo e struggente con Big Fat Silver Aeroplane. La complessa e raffinata Blackpool, con i suoi accenti classici ed il veloce tempo in 3/8 ci fa scivolare in un mondo senza tempo e lascia una porta socchiusa su un possibile nuovo scenario che la musica moderna potrà prima o poi sperimentare. L'impressione è che - se lo farà - partirà proprio dall'Inghilterra. Nuova escursione in territorio folk-blues con Legend ed atmsfere addirittura country con Girlie, seppure solo accennate in un contesto che resta prettamente folk. October 12th prosegue sulla medesima rotta prima che Black Clouds ci sorprenda con un arpeggio classichegiante e cambi di tonalità improvvisi che innescano una melodia inusuale ed affascinante. E così, come un fulmine a ciel sereno, arriva Mr. Station Master, un brano in cui per la prima volta alla chitarra si aggiungono batteria, basso ed un organo: un omaggio alla tradizione americana del rock'n'roll e del folk senza esitazione alcuna. Forever ci restituisce la dimensione intimista del binomio voce-chitarra, prima che Committed chiuda l'album in un modo del tutto inatteso aprendosi al vecchio beat e lasciando in evidenza il basso e la batteria sul resto degli strumenti.
E' difficile immaginare quali sbocchi potrà avere la carriera di questo giovane e talentuoso chitarrista: l'impressiopne è che abbia tutte le carte in regola sia per chiudersi in se stesso con un originale marchio di fabbrica sulla sua musica, sia per aprirsi a nuove soluzioni, forse quelle della contaminazione del rock con il classico lasciate intravedere con Blackpool.
Per il momento godiamoci l'ascolto di questo disco carico di evocatività e di trame sonore sofisticate e semplici allo stesso tempo.

martedì 30 aprile 2013

The Velvet Underground & Nico - The Velvet Underground and Nico (voto: 9)


Se avessi avuto la fortuna di poter recensire questo disco nel 1967, al momento della sua uscita, avrei scritto così.
Da oggi l'America ha due facce musicali: quella della West Coast - lisergica e sognante - e quella della costa orientale, suburbana, eroinica, maledetta. Ecco dunque comporsi e completarsi la mappa geografica della musica moderna: da un lato la vecchia Inghilterra con i classici Beatles e la loro anima nera, gli Stones. Dall'altro il Nuovo Continente con la poetica visionaria dei Jefferson Airplane contrapposta alla crudezza iperrealista dei Velvet Underground. Che poi stiano emergendo altre soluzioni dannatamente importanti al di là dell'oceano (i Doors, ad esempio) ed anche al di qua (stiamo attendendo con trepidazione il primo lavoro dei Pink Floyd), è un dato di fatto che non contraddice ma esalta l'assunto della doppiezza artistica del mondo della musica moderna.
Ho ritenuto necessaria un'introduzione così panoramica per mettere in rilievo tutto il peso dell'album di cui mi accingo a parlare. Passo ora alla sua analisi, premettendo che l'incisione era già pronta per essere pubblicata  diversi mesi fa e che ragioni di marketing e di produzione ne hanno ritardato l'uscita sul mercato. Soprattutto la ricerca da parte del deus ex machina Andy Warhol di una casa discografica a cui cedere i diritti è stata particolarmente lunga e tribolata: Warhol aveva fatto registrare il disco in uno squinternato studio newyorchese, lo Scepter, ne aveva acquisito i diritti ed ora voleva monetizzare il suo lavoro cedendoli ad una casa degna di questo nome ed in grado di curarne la diffusione commerciale in modo adeguato. Alla fine, dopo una serie di tira e molla e molte porte sbattute in faccia, l'accordo è stato trovato con l'etichetta Verve records. Oggi, finalmente, il disco è in commercio.
Mi sembra anche opportuno ricordare che i componenti del gruppo sono già noti nell'ambiente underground per aver tenuto una moltitudine di concerti dal '65 ad oggi, grazie alle sponsorizzazioni dell'uomo della Factory e di altri artisti della scena newyorchese, fra i quali il regista Paul Morrisey. I Velvet Underground sono nati appunto nel 1965 dall'incontro tra John Cale (viola, basso e tastiere) e Lou Reed, eccentrico compositore di canzoncine e buonissimo chitarrista. Successivamente si sono aggiunti Sterling Morrison (chitarra) ed Angus MacLise (batteria). Così, di concerto in concerto, di sperimentazione in sperimentazione, si è giunti a questo primo album in studio che vede anche la preziosa collaborazione della cantante tedesca Nico.
Il disco si apre con Sunday Morning, introdotta da uno xilofono in stile carillon e da un basso suonato con maestria da John Cale. La canzone è solare e felpata e l'uso di un riverbero accentuatissimo per la voce di Lou Reed arricchisce e completa l'atmosfera di serenità di questa domenica mattina gioiosa e perfetta. A cosa siamo difronte? Ad un brano d'evasione scritto ed interpretato sotto l'impulso di un formidabile prurito commerciale, oppure la chiave di lettura di questa canzone è completamente diversa, sinistra come sanno esserlo soltanto le manifestazioni infantili di gioia? La risposta esatta è la seconda. Ecco infatti I'm waiting for my man (il pusher da cui comprare la dose) proiettarci nel bel mezzo di un vicolo della New York grigia e periferica. Il basso pulsa veloce come un cuore in ansia e l'elettricità delle chitarre, il piano boogie, la voce disturbante di Reed e la batteria nervosa e geometrica, ci consegnano un quadro che non avevamo mai visto prima: quello della paura e della speranza suburbana. La paura è che il pusher non arrivi, la speranza è che arrivi. L'ideale della speranza è scarno e ridotto all'invocazione ed al piacere del prossimo buco. Questo nichilismo disperato e raccontato con minimalismo letterario e musicale accende di amara ironia perfino la precedente lullaby di Sunday Morning.
Arriva Nico. Arriva Femme Fatale, la donna che strapazza i suoi amanti. Il controcanto di Lou impreziosisce l'interpretazione principale della cantante tedesca, perfettamente a suo agio nel ruolo sadico disegnatole da Reed e Cale. "Ragazzino, lei viene dalla strada / Prima di cominciare ti ha già vinto / Si prenderà gioco di te come un fantoccio / E' proprio così". L'atmosfera fredda e decadente della musica, teutonica come Nico stessa, richiama immagini cinematografiche del passato e nello stesso tempo ci consegna una figura di eroina moderna e ruvida come solo certe strade di New York sanno essere. 
Venus in furs ci proietta immediatamente in un ambiente ostile e perverso, con un tempo lento e maestoso sovrastato da una chitarra elettrica effettata e monocorde. Una vera e propria allucinazione sonora che funge da tappeto elastico per la voce rimbalzante e maledetta di Lou Reed, un cantato che è la recita sofferta di un narratore completamente coinvolto nel gioco di seduzione sadomasochistica a cui sta assistendo. "Lucidi, lucidi, lucidi stivali di cuoio / Schiocco di frusta di una donna-bambina nel buio / Arriva veloce il tuo servo, non lo abbandonare / Colpisci, padrona cara, e cura il suo cuore". Se in Femme Fatale Il rito della sottomissione è raccontato in modo indiretto attraverso la descrizione del cuore freddo della protagonista, qui è osservato, narrato ed incoraggiato da una terza persona partecipe. L'effetto è quello di una macchina da presa rapita ed ipnotica che mantiene il focus sui protagonisti senza mai perderli di vista, vacillando di tanto in tanto come colpita dal fluido erotico della scena, forte e spossante: " Sono stanco, sono esausto / Potrei dormire mille anni / Mille sogni che mi potrebbero svegliare / Colori diversi fatti di lacrime".
Run run run è una cavalcata elettrica che paga un ricco tributo a Dylan, pur se la poetica del testo, così cruda e diretta, non concede spazio alla speranza.  "Harry Sbarbato, che spreco / Non riusciva a trovarne neanche un assaggio / Prese allora il tram fino alla Quarantasettesima / Pensava che se fosse stato bravo, avrebbe trovato il modo d’arrivare in cielo".
All tomorrow's parties si apre col medesimo incedere cadenzato di Venus in Furs. Qui la voce di Nico, sospesa tra sogno e realtà, è quella di un menestrello che racconta con piglio distaccato e medievale la storia di una Cenerentola moderna, forse uno dei tanti personaggi stralunati e senza domani che popolano la Factory di Andy Warhol: una nuova eroina senza valori immersa in un mondo popolato di distorsioni elettriche, la cui desolante quotidianità è straordinariamente espressa da una ritmica stanca e sempre uguale a se stessa.

"Non so proprio dove vado
ma proverò a raggiungere il regno se ci riesco

perché mi sento un vero uomo
quando infilo l’ago in vera
poi dico che le cose non sono affatto le stesse
quando mi sto godendo la mia pera
e mi sento come il figlio di Gesù
e ammetto che non so niente
e ammetto che non so proprio niente".


La forma racconto-confessione in prima persona caratterizza l'epica Heroin, in cui l'arpeggio delicato dell'elettrica apre improvvisamente a crescendo ritmici senza batteria nè basso, per poi tornare all'arpeggio iniziale e ripartire nuovamente. Qualcuno sa se è questo è il modo in cui si avverte l'effetto dell'eroina? Lou Reed è disperato ed imprendibile nella sua ode alla droga e alla morte, lontano anni luce dal solfeggio letterario e poetico di Jim Morrison nella sua recentissima The End. Qui non c'è alcun gioco da giocare, nessun velo da sistemare sulla cruda impalcatura di morte disegnata da Reed. E' tutto detto e nulla è nascosto. L'immaginazione viene annientata senza pietà da un soliloquio che non concede vie di fuga all'ascoltatore e lo crocifigge ad un'esperienza realistica a 360°.
There she goes again, la storia di un ragazzo tradito dalla sua ragazza fino all'umiliazione, è acqua di rose al confronto delle tematiche dei brani rpecedenti. Ed infatti il riff iniziale riprende un successo di Marvin Gaye del 1963, Hitch Hike, e lo lascia evolvere in un tirato ed essenziale rock and roll.
I'll be your mirror è una lenta ballata cantata da Nico. Il brano è a lei stessa dedicato da Lou Reed, il quale riesce a scrivere anche parole straordinariamente dolci per la donna che ama.
The black angel's death song è una lunga poesia quasi urlata da Reed sopra la viola distorta di John Cale. Sembra doversi improvvisamente aprire a sbocchi percussivi ed invece rimane come sospesa su se stessa, misteriosa e musicalmente ermetica come i suoi versi: "Bocca tagliata dimentica nel dolore rasoi sanguinanti / Ricordi antisettici cantano addio / Così tu voli verso la bruna neve consolante dell’est". La viola e la voce di Reed si fondono per dar vita ad una pagina di poesia nuova, metropolitana e spettrale, l'esatto contrario di tutto quel che sino ad oggi ci è stato dato sentire. Il brano ne innesca un altro, l'ultimo, European Son, che Lou Reed ha dedicato al suo mentore Delmore Shwartz. Non sono parole dolci quelle che Lou gli regala: "Hai ammazzato il tuo figlio europeo / Hai sputato su quelli sotto i vent’ anni / Ma ora le tue nuvole azzurre sono andate via / Faresti meglio a salutare / ehi, ehi, ciao, ciao, ciao". Feedback di chitarra, percussioni convulse e basso velocissimo si sommano a rumori elettronici di fondo e chiudono un album straordinario. Un album che forse non avrà un successo commerciale (e forse non vuole neanche averlo), ma un album che ci racconta di una nuova direzione della musica rock: quella artistica e letteraria, quella in cui l'underground assurge a dimensioni poetiche mai raggiunte (e neanche cercate) in precedenza. 
Se il protagonismo di Warhol, spesso così ingombrante, si mette a far da sponda a fenomeni come quello dei Velvet, non possiamo che accettarlo ed incoraggiarlo. Di certo oggi sappiamo che nella sua Factory nascono artisti veri e non fenomeni da baraccone che servono soltanto a soddisfare le voglie egocentriche ed eccessive di un artista unico affetto da cannibalismo.