venerdì 9 marzo 2012

PETER GABRIEL IV - Peter Gabriel (voto: 8)



Il rock era già morto da un pezzo.
Orde di new romantics e post decadenti si affrettavano a dare continuità ad un filone ammuffito e nauseabondo. Punkettari e post-punkettari strombazzavano la loro rabbia di plastica nelle orecchie arrugginite dai vecchi brani dei Velvet Underground. Sintetizzatori e drum-machines promettevano l'oscurantismo imminente, un po' come facevano i rockabilly coi loro bananoni anni cinquanta a testimoniare l'ineluttabilità dell'imitazione dei vecchi padri.
Di fianco a questa folla impazzita e privata della bussola creativa, i vecchi soloni avevano iniziato ad autocelebrarsi negli stadi e nei grandi teatri: gli Stones macinavano numeri da record inversamente proporzionali alla loro vena creativa; i Pink Floyd si erano lasciati seppellire dalle tonnellate di mattoni che essi stessi avevano costruito e fatto crollare e dalle macerie avevano appena estratto un nuovo leader con tanto di ventiquattr'ore e capello da uomo della City; Neil Young aveva capito quel che stava succedendo e rappresentò il post-wave come qualcosa di piccolo e seriale (le minuscole maschere dei Devo che costruiscono il gigantesco palco destinato a ospitare il Gigante morto) in un evento comunque autoindulgente e privo di speranza.
Quando tolsi il cellophane da quell’album avevo diciannove anni.
Le mie energie e i miei ardori avevano sbocchi molteplici e non tutti confessabili. Di certo la musica era importante e mi dava i brividi ed ero aperto a tutto: in fondo “The lamb” aveva soltanto otto anni e ne potevo ancora tollerare l’ascolto in cuffia a fari spenti per meglio percepire le trame sonore di Banks e le discese vertiginose della voce di Gabriel. 
Già, Gabriel.
Un paio d’anni prima avevo pensato che la sua direzione musicale sarebbe stata la mia. Aveva impiegato pochi secondi per convincermi: una figura di batteria in 4/4 ripetuta all’infinito ed un cigolìo metallico simile ad un lamento avevano fatto breccia nella testa e nel cuore di un adolescente in modo definitivo ed irreversibile, scongiurando una volta per tutte le mille derive romantiche della musica a vantaggio dell’emozione fredda, la carica statica dell’emozione fredda.
Quando tolsi il cellophane da quell’album avevo diciannove anni e la coscienza dell’annullamento delle frequenze alte, del suono vulcanico di una batteria senza piatti, del cuore che può battere forte, insomma, senza sbracare.
Era un giorno di settembre del 1982.
In compagnia della fidanzatina dell’epoca, entrai nel solito negozio di dischi temendo che PG IV non fosse ancora arrivato. Chiesi alla commessa ciò che desideravo e lei, con la medesima indifferenza che aveva ostentato al precedente cliente che le aveva chiesto un disco di Springsteen, mi porse il mio disco.
Altro non posso dirvi. Ogni esperienza è una storia a sé.
Se a qualcuno di voi è capitato di acquistare PGIV in un lontano settembre di trent’anni fa, mi piacerebbe sapere se quel giorno anche la sua vita è cambiata. 
O forse, in fondo, neanche questo m’interessa più di tanto.

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