mercoledì 29 maggio 2024

Butthole Surfers - Butthole Surfers (voto: 7,5)


Se qualcuno pensa che il Texas sia solo e soltanto la terra dei Bush e dei ricchi petrolieri alla J.R., oppure pensa che simboleggi alla perfezione l’America più becera e retrograda, incapace di fare una O col bicchiere e, a maggior ragione, di dettare legge ed innovare in campo artistico, beh…forse dovrebbe ascoltare questo EP uscito nel 1983 e, possibilmente, ricredersi.
Butthole Surfers è il primo mini album omonimo di una band formatasi a San Antonio per iniziativa di Gibby Haynes e Paul Leary (cognome inquietante che rimanda al padre dell’LSD), rispettivamente cantante e chitarrista, ragazzi sbandati e prototipi perfetti della gioventù che il movimento hardcore stava proprio in quegli anni cantando e celebrando. Sì, perché l’hardcore fu quella stagione musicale, successiva al punk, che ne estremizzò sia le istanze politiche che le componenti distruttive squisitamente musicali, accelerando all’impazzata la velocità della sezione ritmica e, al contempo, riducendo ai minimi termini la lunghezza dei brani. L’hardcore fu la musica dei giovani disperati, chiusi in se stessi e confinati nell’angusto perimetro delle proprie camerette, dediti soltanto alla masturbazione più sfrenata ed all’ascolto ad alto volume di tutto ciò che potesse stordirli all’inverosimile.
I Butthole Surfers diedero una sterzata clamorosa a quello status quo nichilista senza rinnegarne le radici (che erano poi le proprie) ma nobilitandolo in modo assolutamente originale con potenti iniezioni di tradizione (psichedelia, heavy metal e folk) che, tutto sommato, erano le basi su cui comunque il punk ed i suoi derivati poggiavano. 
Ecco allora che un brano come Hey sembra quasi una cavalcata country western a ritmo punk; Something, con un andamento da synth pop acido, mette un sigillo artistico ad una moda ontologicamente povera di contenuti (straordinario l’uso della slide guitar come se fosse un sintetizzatore); Bar B-Q Pope è grunge ante literam e rivela il pozzo a cui attingerà a piene mani Kurt Cobain; Wichita Cathedral è un rockabilly che si fa largo fra feedback e soli di chiatarra acidi; Suicide è la più punk fra tutte le canzoni dell’album, pur mantenendo nel cantato un taglio decisamente fuori contesto. The revenge of Anus Presley, col suo andamento da blues in 12/8, è il brano che preferisco per la sua tendenza ad essere altro da sé. Qui infatti la struttura blues è orribilmente deturpata con una tecnica, anche vocale, ereditata da Captain Beefheart.
Tralascio, non per pudore, i commenti sulla deliziosa copertina, sul nome della band e sui testi. Mi limito semplicemente a ricordare le sghignazzate che mi feci da giovane in compagnia dei miei amici, ed a consigliarvi di non farvene sfuggire i particolari. 

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