venerdì 31 maggio 2024

The end of the game - Peter Green (voto: 7)


Quella di Peter Green sembrava una storia destinata a concludersi tragicamente, tanto furono turbolente le sue abitudini di vita: LSD e non solo lo avevano condotto nel 1977 ad un ricovero psichiatrico lungo e doloroso, ed il suo percorso artistico sembrava essersi arrestato per sempre. Fortunatamente si riprese e ricominciò perfino a comporre e suonare, da solo e poi in gruppo con gli Splinter Group, fino al 2003.
Sono partito descrivendo il ramo finale della parabola di questo straordinario chitarrista ed autore perché ho voluto dare dignità alla fase più oscura della sua esistenza, quella che nessun giornale e nessuna rivista specializzata racconta. La stella di Peter Green era però brillata forte nel 1967, anno in cui fondò i Fleetwood Mac, con i quali incise i primi quattro album prima di dedicarsi alla carriera solista che partì nel 1970 proprio con la realizzazione di The end of the game.
Dici Peter Green e pensi automaticamente al “blues bianco”, il movimento che nella seconda metà degli anni sessanta nacque in Inghilterra con il lodevole intento di riportare alla luce le radici blues del rock. Insieme a John Mayall ed i suoi Heartbreakers (di cui per un breve periodo lo stesso Green fece parte) ed ai Cream di Baker, Bruce e Clapton, Peter fu fra i pionieri e gli anticipatori di un sound che portò alla nascita dell’hard rock dei Deep Purple e dei Led Zeppelin, i quali non fecero altro che estremizzare in chiave più dura la lezione dei maestri.
The end of the game è però qualcosa di più e di diverso dallo stile e dai contenuti del blues bianco e si muove semmai in un territorio tribale e rivelatore delle viscere terzomondiste del rock, pur nelle atmosfere blues e jazz che ne costituiscono l’imprescindibile contorno. La scena è dominata dal vibrato e dal wah wah della Gibson di Green, capace di disegnare paesaggi sonori di straordinaria intensità. La lunga ed introduttiva Bottoms up ne è senz’altro uno degli esempi. La successiva e breve Timeless time è invece un momento di riflessione in cui la chitarra sembra interrogarsi su quale direzione prendere senza mai giungere ad una conclusione definitiva; Descending scale è la meraviglia che non ti aspetti: prima uno scarno botta e risposta tra un pianoforte e un organo, con l’elettrica che interviene a far esplodere gli animi; poi l’intermezzo jazz avanguardistico che cresce d’intensità come il break orchestrale di A day in the life in Sgt. Pepper, trascinandoci in una jam session che ha nel basso il protagonista assoluto.
In realtà tutti i brani presenti in questo disco puramente strumentale sono piccole gemme disposte in modo da formare un disegno unitario la cui chiare di lettura principale è il rock inteso come punto di convergenza di mille generi e mille anime, nessuna esclusa. Per portare a termine un’operazione del genere son necessarie una cultura musicale ed una sensibilità artistica fuori dal comune. Ma stiamo parlando di Peter Green, non di un musicista qualsiasi. 

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