lunedì 3 giugno 2024

Unrest - Henry Cow (voto: 8)


È lecito chiedersi cosa c’entrino gli Henry Cow col rock? Credo che la giusta risposta sia: dipende da cosa intendiamo con la parola rock. In un’accezione molto restrittiva del termine, quella che lo considera una semplice abbreviazione di rock’n’roll, allora il gruppo di Cambridge (come del resto una grandissima quantità di musica ed artisti emersi dalla seconda metà degli anni sessanta in poi) ne è distante anni luce. Se invece, molto più opportunamente, attribuiamo alla parola rock il significato quasi filosofico di rottura degli schemi e conseguente superamento degli stessi, ecco che allora gli Henry Cow ed interi movimenti musicali che vanno dall’elettronica pura al jazz, dalla sperimentazione avanguardistica al ripensamento delle strutture classiche, ne fanno parte a pieno titolo.
È comunque inutile nascondersi, gli Henry Cow sono l’estrema periferia del rock; una periferia lontanissima dal centro nevralgico di quella scena musicale che, nel momento in cui si formarono, viveva la più grande rivoluzione artistica del XX secolo. Racconta Chris Cutler, il batterista della band, che gli Henry Cow devono indirettamente la loro nascita ai Pink Floyd, il gruppo che verso la fine degli anni sessanta dimostrò che era possibile fare musica mantenendo il pubblico con le terga incollate alla sedia. Se il gruppo di Barrett e Waters era riuscito nell’impresa, perché non provare ad emularli? Le acque musicali in cui nuotavano gli Henry Cow erano però molto meno tranquille di quelle floydiane: erano le acque turbolente del free jazz, dell’elettronica e delle avanguardie dissonanti. Così il gruppo dovette aspettare diversi anni prima di incidere un disco e porsi all’attenzione di un pubblico finalmente maturo.
Fu comunque la scena di Canterbury, molto più di quella psichedelica e dello space-rock, a spianare la strada al percorso artistico del quintetto di Cambridge. I Soft Machine di Robert Wyatt avevano infatti già sfornato tutti i loro capolavori quando gli Henry Cow incisero nel 1973 Leg end, il loro primo disco in cui domina, insieme alle già citate influenze canterburiane, l’elemento bandistico e dissacratorio di Zappa.
Il loro secondo disco Unrest, uscito l’anno successivo, non fa altro che cementare e portare a maturazione le intuizioni del primo.
Il violino di Fred Frith, l’organo di Tim Hodgkinson, il basso di John Greaves e la batteria di Chris Cutler costituiscono il nocciolo duro di una formazione che ha annoverato nel corso degli anni una miriade di musicisti tra cui spiccano anche i nomi di Mike Oldield e del padre putativo Robert Wyatt.
Unrest parte con un brano che serve a depistare l’ascoltatore: Bittern storm over hulm è infatti un piccolo ed accattivante gioiello di jazz rock in cui la sezione ritmica sostiene la chitarra di Frith a metà strada fra l’assolo zappiano e quello che sarà un domani il cocainico modus operandi di Adrian Belew. Half asleep: half awake, con il suo introduttivo e sognante piano jazz, ci catapulta in una jam dominata prima dai fiati, poi dalle tastiere, poi da entrambi. La coesione degli strumenti è appesa ad un filo sottilissimo che sembra sempre sul punto di spezzarsi per sconfinare in territori cacofonici, ma si salva ripetutamente e miracolosamente fino a riportarci da dover eravamo partiti, cioè a quel piano jazz che in solitaria tesse di nuovo una trama d’incanto. Ruins è una lunga suite aperta dai fiati e portata avanti da un intreccio musicale in cui la presenza del vibrafono rimanda allo Zappa più sperimentale. Il brano evolve mettendo in evidenza la chitarra distorta di Frith e gli accordi minimali del piano, per poi proseguire in chiave cameristica con gli archi a farla da padrone. Gli elementi più caratteristici della dodecafonia del XX secolo trovano qui uno spazio espressivo che nessun altro, in territorio rock, aveva forse sino ad allora osato tenere aperto. Il tema dodecafonico e l’uso delle dissonanze è ripreso ed esasperato in Linguaphonie che, per forza di cose, si candida ad essere il brano più sperimentale in assoluto dell’intero album, oltre che a far da naturale apripista ai tre pezzi conclusivi Upon entering the hotel Adlon, Arcades e Deluge, dove ormai ogni centro tonale è scomparso e la musica sembra permeata da un ideale e definitivo clima di straniamento.
Ascoltare oggi gli Henry Cow significa soprattutto rimettersi in contatto con una stagione musicale che rese necessario ai giovani di allora (io tra questi) l’uso di un paio di orecchie nuove e la voglia di trascendere la limitatezza degli standard della musica giovanile conosciuti fino ad allora.
La speranza è che nulla sia andato perduto per sempre.


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