Il mio primo incontro con Annette Peacock risale alla fine degli anni settanta, quando acquistai il disco solista di Bill Bruford (storico batterista degli Yes prima e dei King Crimson poi) intitolato Feels good to me, in cui l’artista americana compare al canto in tre tracce: Back to the beginning, Seems like a lifetime ago e Adios a la pasada; quest’ultima porta anche la sua firma come autrice. Due anni più tardi un altro batterista altrettanto famoso, Nick Mason dei Pink Floyd, realizzò il suo Fictitious sports avvalendosi della collaborazione di un’altra figura femminile, la jazzista Carla Bley, alla quale sarebbero dovuti andare i meriti principali della riuscita del disco. Annette Peacock, come Carla Bley, è tutt’altro che estranea all’universo del jazz; i suoi orizzonti musicali sono però molto più elastici e la consacrano come una delle figure più originali dell’avanguardia amaricana. Fu proprio il marito di Carla, Paul Bley, pianista ed esponente di punta del jazz, a condividere con Annette l’utilizzo dei primi sintetizzatori Moog nella seconda metà degli anni sessanta, tanto che la firma della Peacock è presente in numerosi brani dell’intera produzione discografica di Bley.
Annette aveva cominciato a comporre da autodidatta già all’età di quattro anni, grazie alla presenza di un pianoforte nella sua casa newyorkese, anche se lo sviluppo della sua personalità artistica si realizzò in California dove ebbe modo di sperimentare anche l’uso dell’LSD, a cui fu introdotta direttamente da Timothy Leary, il celebre psicologo che ne promosse e diffuse l’uso tra le masse.
I’m the one, uscito nel 1972 è il primo lavoro solista della Peacock, e giunge quando l’artista ha già trentun anni ed un bagaglio di conoscenze musicali importantissimo. L’album contiene nove tracce, il cui filo conduttore è soprattutto la voce della Peacock spesso filtrata dal sintetizzatore; una voce impressionante per timbrica, espressività e potenza, che spazia dal canto jazz al rock ed al blues con una semplicità disarmante, consentendo all’ascoltatore un viaggio avanguardistico ed unico per intensità emotiva e ricchezza di contenuti. Accompagnandosi col solo piano come in 7 days, altre volte squarciando improvvisamente la tela jazzistica con un canto soul come in I’m the one, oppure avventurandosi dall’inizio alla fine in territorio funky/rhythm’n’blues col filtro accentuato del synth fra i ruggiti del sax di Mark Whitecage (Pony), la Peacock innalza definitivamente il ruolo del songwriter tradizionale, anche quello più nobile di Joni Mitchell, fino alla vetta dello sperimentalismo, senza mai rinunciare al gusto primitivo del blues (Blood/One way).
Riascoltare questo disco a distanza di così tanti decenni conferma l’assunto che i grandi capolavori restano sempre freschi ed originali, se non addirittura ancora un passo avanti rispetto all’attualità: che si tratti di free jazz avanguardistico, come in questo caso, oppure di “semplice” rock, a far la differenza sono sempre la voglia e la capacità di superare il “già fatto” e se stessi.
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