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lunedì 29 aprile 2013

More than a new discovery - Laura Nyro (voto: 6,5)

Non capita spesso d'imbattersi in musicisti che prediligano la riservatezza ai riflettori dello show business. Quando accade, è bene non sottovalutarne la portata e soffermarsi, approfondire. Laura Nyro - newyorchese di origini italiane - respirò musica sin dalla prima infanzia, essendosi ritrovata in casa un padre jazzista ed un pianoforte Steinway. Una tale configurazione domestica guidò in modo naturale Laura verso lidi compositivi ed interpretativi che la videro a sedici anni esibirsi nella subway della Grande Mela ed a diciassette vendere per soli $5.000 una sua composizione (And when I die, che fa parte di questo suo primo lavoro) a Peter, Paul and Mary. Quando nel 1967 uscì questo album, Laura aveva solo vent'anni, un background straordinario, una voce in grado di coprire con estrema naturalezza tre ottave, una vena compositiva fuori dal comune e doti tecniche da pianista consumata ed ultra-sensibile. Con simili premesse, il lavoro che ci accingiamo ad analizzare merita il medesimo rispetto e la medesima attenzione che solitamente si riservano ad artisti del calibro di Bob Dylan, non a caso punto di riferimento - insieme a mille altri - della giovane artista.
L'intero lavoro è ricco di influenze Jazz, blues e gospel e soprattutto di un carattere intimistico che parve subito essere un marchio di fabbrica da predestinata. Goodbye Joe apre il disco con un arrangiamento orchestrale ricco di fiati. La voce di Laura veleggia serena sul  territorio dell'easy listening di matrice americana, quasi da music hall, evidenziando subito l'ampia gamma di toni a sua disposizione ed un'asciuttezza lontana da tentazioni orpellistiche; insomma, una maturità degna di una grande e consumata cantante. Billy's Blues ci fa scivolare in un'atmosfera sognante e malinconica. La voce di Laura, contrappuntata da una tromba ovattata e sorretta da una struttura jazz-blues minimale, rimanda alle grandi interpreti nere del jazz americano senza che il confronto risulti impari. E' una melodia da ascoltare ad occhi soccchiusi, e da chiudere completamente ogniqualvolta i delicati acuti di Laura si stagliano su quest'oasi di pace come eleganti ed inafferrabili sequoie. And when I die, il brano venduto a Peter, Paul e Mary, mescola il gospel col blues per poi evolvere in una cavalcata country-rock. Piano ed armonica in bella evidenza per Stoney end. Easy listening - se volete - di classe e sostanza. E' però la dimensione intima di Laura a lasciarci senza fiato, come nella straordinaria Lazy Susan, introdotta da voce e piano prima di perdersi in territorio blues, con armonica in sottofondo a colorare di magia una scintillante parte centrale più veloce e jazz. Il brano si chiude con un ritorno ai connotati intimistici inziali, denotando una capacità di scrittura superiore e rara. Hands off the man è un ritorno al suono orchestrale così come la successiva Wedding bell blues, a testimonianza di una vena melodica degna della grande tradizione americana. Buy and sell, invece, ci riconduce ad un'atmosfera jazz classica e minimale, da night club semideserto. Laura sale e scende con la voce sui gradini di una scala imperfetta e magica, ed il suo pianoforte è un cuscino ovattato che sembra seguirla lungo il percorso come un amico quasi silenzioso e affidabile. He's a runner è tutta giocata sulle note altissime di Laura, un capolavoro di vocalità per una melodia semplice ed un arrangiamento essenziale con tanto di spazzole per una batteria lineare e lenta. Blowin' away si riapre al mondo esterno ed assolato con un ritmo più sostenuto e vivace, cori femminili e basso pizzicato in bella evidenza. I never meant tu hurt you ci riporta nell’area più intimista, mentre la conclusiva California Shoeshine Boys - il brano più veloce ed allegro dell'album - riassume country, rock, blues e tradizione pop, lasciando all'armonica l'onore dell'ultimo suono di un album che sembra una lezione di stile, eleganza e creatività. Che poi ad impartircela sia una ragazza di soli vent'anni, innamorata della musica e del suo pianoforte, dotata di una voce ricca di sfumature e di un talento volutamente non ostentato, ma offerto con grazia e forse con un pizzico di sana timidezza artistica, non può che accrescere l’ammirazione verso un'opera prima di rara bellezza.

Between the buttons - Rolling Stones (voto: 6)


Nel 1967 fu pubblicato per il solo Regno Unito il nuovo album degli Stones Between the buttons. Anticipato dal 45 giri  Ruby Tuesday/Let's spend the night together (che non comparvero nell’edizione inglese ma trovarono spazio in quella americana), il disco successivo ad Aftermath, atteso come la risposta a Revolver dei Beatles, si compone di 12 tracce di matrice rock'n'roll, abbastanza lontane dal caratteristico rhytm'n'blues che fino ad allora aveva caratterizzato la discografia dei Rolling Stones.
L'album si apre con due brani veloci ed accattivanti: Yesterday's papers e My obsession: cassa in quattro, chitarra di Keith Richards in evidenza e solita presa immediata. Si prosegue con Back street girl, ballata quasi folk in 3/4 con tanto di fisarmonica, chitarra acustica e tamburello: quanto basta per spezzare il ritmo e concedersi una breve pausa di bucolica riflessione. Si riparte con Connecion, beat e tirata, si passa per She smiled Sweetly, introdotta da una semplice linea di organo e tutta giocata sul registro più dolce della voce di Jagger. Si arriva a Cool, calm and collected dal ritmo country, con il pianoforte di keith Richards ad ispessire l'atmosfera da  saloon di inizio secolo. Un brano inusuale per gli Stones, che qui sembrano voler ripagare i successi americani con un tributo alla tradizione musicale made in U.S.A.. All sold out fa registrare un immediato ritorno alla matrice rock'n'roll, col charleston di Watts sugli scudi e la voce di Jagger a primeggiare. Please go home, punteggiata dall'elettrica di Richards effettata allo stesso modo della voce di Mick Jagger, è un treno che corre e fischia con tanto di armonica (suonata da Brian Jones) ed una batteria affannosa, forse un po' sopra le righe. Atmosfere più rarefatte e tranquille nella rock ballad Who's been sleeping here, forse il brano più riuscito dell'album. Ogni cosa al suo posto: armonica, chitarra acustica, pianoforte e voce disegnano una trama melodica suggestiva su un tessuto ritmico in cui il lavoro di Bill Wyman al basso è lucido è convincente. Complicated promette e mantiene buon rock'n'roll con l'introduzione solitaria di Charlie Watts subito accompagnata dal tamburello e finalmente completata dall'intervento dell'intero gruppo, con un sax laterale ed appena udibile suonato da Brian Jones a conferire una personalità forte all'intero brano. Miss Amanda Jones ha tutte le carte in regola per essere la nuova hit degli Stones, con le chitarre elettriche a contendersi il primato assoluto e la voce di Jagger sui livelli migliori di sempre. Something happened to me yesterday, con tanto di tuba e tempo di marcia preannunciata da un ghirigoro in chiaro New Orleans - style, chiude l'album in modo ironico.
In un periodo in cui si assiste all'uscita di dischi che vanno in direzioni nuove ed intendono trascinare il rock and roll fuori dalla classica gabbia fatta di di cassa in quattro automatica, dal paradigma strofa - ritornello - strofa e  delle sue atmosfere spensierate, gli Stones escono dunque con un album che possiamo definire "di tradizione", pur facendo registrare - come detto in precedenza - la novità della rinuncia alla dominante blues, da sempre uno dei marchi di fabbrica della ditta jagger/Richards/Jones.
L'arrivo di un nuovo lavoro degli Stones, così come accade per i Beatles, è sempre accompagnato da aspettative che vengono facilmente frustrate al primo ascolto. Ci si attende sempre da loro la novità che non possono e forse non vogliono darci, essendo ormai gruppo con un preciso e collaudatissimo marchio di fabbrica che non hanno alcuna intenzione di rovinare. Vanno presi così, con la componente delle loro vite trasgressive in bella vista dentro una confezione musicale classica ed elegante. 

Da capo - Love (voto: 6,5)

Anno 1967, secondo album per il gruppo americano Love a soli sette mesi dalla pubblicazione del primo ed omonimo.
Da Capo rivela sin dal primo ascolto la volontà di allontanarsi dal sound più ortodosso del primo lavoro e la capacità sorprendente di coniugare soluzioni melodiche classiche con ritmi vulcanici e battute d'arresto improvvise. 
L'album si compone di sette brani, di cui i primi sei di breve durata ed il settimo in forma di suite ad occupare l'intera seconda facciata. Questa scelta artistica, rischiosa dal punto di vista strettamente commerciale, ha sul piano dell'estetica complessiva del lavoro un impatto premiante. 
La suite di cui stiamo parlando, Revelation, si apre come una vera e propria cavalcata ai confini del rock, con la voce di Arthur Lee a svettare imponente su un tessuto sonoro di chiara matrice rhytm'n'blues, in cui la chitarra solista di Johnny Echols disegna melodie nervose che sembrano continuamente interrompersi e giocare a rimpiattino col basso incalzante di Ken Forssi. Il brano si snoda attraverso i vocalizzi e l'armonica di Lee mantenendosi però fermamente ancorato alle premesse iniziali. Un primo, vero e proprio break fa la sua comparsa quando il sassofono di Tyaj Cantrelli inizia a ritagliarsi un prezioso spazio solistico su un ritmo che è diventato improvvisamente più sinuoso ed impreziosito di colori sudamericani. Basso prima e batteria poi interrompono la parentesi ed assumono a turno il comando solitario del pezzo, prima che irrompa il clavicembalo di Alban Pfisterer a chiudere definitivamente i giochi con un virtuosismo inusitato e barocco, lo stesso clavicembalo che introduce il primo brano dell'album - un 3/4 velocissimo chiamato Stephanie knows who. Anche qui il sax è magistrale quanto la voce istrionica di Lee, ed il ritmo ha un sapore diverso da qualsiasi altro brano rock fino ad allora ascoltato.
Più classica Orange Skies, con la chitarra elettrica ed il flauto a far da contrappunto al ritmo sognante di bossa nova dell'intero brano, in cui la voce di Lee dimostra di saper essere anche romantica, seppur in un modo tutto suo . !Que Vida continua sulla falsariga del brano precedente, quasi la sua naturale prosecuzione. Qui è l'organo di Pfisterer ad avere la meglio, giocandosi il primato con la sempre straordinaria chitarra di Echols.
7 and 7 is corre come un treno su un fondo ritmico velocissimo. La voce di Arthur Lee la fa da padrone sui registri più alti e si amalgama al tessuto musicale con una naturalezza che evidenzia in modo clamoroso la coesione che tutti i membri del gruppo hanno ormai raggiunto.
The Castle inizia con un arpeggio di chitarra classica che apre a sorpresa - continuando a seguire la traccia -  verso un galoppo di chitarra elettrica, basso e batteria a cui si accoda l'immancabile ed inquietante clavicembalo.
She comes in colors, psichedelica e strozzata, è una ballata quasi folk in cui il flauto ed il clavicembalo sembrano essere nati per sfiorare le coordinate classiche del rock.
Un disco importante e strano. Importante perchè mette in discussione l'uso ortodosso degli strumenti nei generi musicali, perchè sviluppa armonie fino a quel momento insolite nella musica pop, perchè l'originalità è al servizio di una logica musicale creativa e salda. Strano perchè, oltre alla già citata copertura integrale di un lato con una sola traccia, testimonia - in modo forse involontario - lo stato confusionale e magnificamente fluido di quell’epoca musicale; un'epoca in cui è forte la volontà di rompere con gli schemi classici ed in cui il diktat dell'originalità non sempre si coniuga con la qualità delle opere. 
Non è questo il caso di Da Capo.

The Doors - The Doors (voto: 8)

È il 1966. Nell'ambiente del rock californiano si vanno infittendo le voci sull'imminente uscita di un disco ad opera di un nuovo gruppo. Il perché se ne parli così tanto è materia per i musicologi con l'attrazione fatale per le statistiche riguardanti il giorno esatto delle incisioni. In effetti l'album è stato finito presso gli studi della Sunset Sound Recorders di Los Angeles il 31 agosto del 1966, dunque oltre quattro mesi prima della sua pubblicazione, avvenuta nei primi giorni del ‘67.
Quando un domani gli storici si chiederanno se questo disco appartenga al 1966 o al 1967, dovranno dunque far bene attenzione a distinguere i due momenti.
Da parte mia, il rifiuto ancestrale delle sciccherie statistiche ed una visione romantica della storia mi obbligano a far riferimento al quattro gennaio 1967. Soltanto così si potrà dire "Il 1967 si aprì con un album epocale".
Quasi tutte le band hanno un leader carismatico, uno (addirittura due nel caso dei Beatles) che infiamma il pubblico con tecniche e sortilegi vari, da quelli semplicemente vocali a quelli gestuali. Se devo trovare un riferimento, una similitudine con la qualità del carisma di James Douglas Morrison - cantante e compositore dei Doors - mi viene in mente Mick Jagger. Ma è un paragone riduttivo che si limita alla forma erotica della gestualità, non alla qualità del suo contenuto. Se Jagger rappresenta la continuazione vocale e visiva di una musica dalle forti tinte sessuali, impregnata di individualismo e di trasgressione, Morrison sembra far l'amore con la Morte, unica fonte di piacere e d'ispirazione. Il rito della seduzione è giocato su registri più alti, pur mantenendo intatta la connotazione viscerale ed epidermica. E' come se Jim abbia improvvisamente alzato la posta, portandola fino ai piani alti della psicanalisi e del teatro.

Father/ Yes son?/ I want to kill you.
Mother/ I want you... fuck you.
C'è l'Edipo Re di Sofocle nei versi di The End. E c'è anche tutta la violenza fortemente individuale ed autobiografica che manca nella sessualità di un Jagger, icona sociale della trasgressione.
Quel che salta subito all'orecchio è la teatralità della voce di Jim Morrison e la visionarietà dei suoi testi. Ma l'insieme della band - a cui manca un bassista, sostituito dall'organo dell'eclettico Ray Manzarek - emerge comunque per la brillantezza dell'insieme: ottima la coesione della sezione ritmica con la batteria di John Densmore e le tastiere basse del già citato Manzarek, il quale si fa notare anche (e soprattutto) per un'ottima tecnica nell'esecuzione delle parti armoniche. Un esempio è la riuscitissima introduzione di Light My Fire, cui fa seguito un cantato su una successione di accordi in LA minore e FA diesis minore7 quanto meno originale. Il brano è straordinario anche per la poetica affatto ortodossa del testo.

Il tempo di esitare e' passato
Non c'e' tempo per rotolarsi nel fango
Prova ora! Possiamo solo perdere
e il nostro amore diventare una pira funeraria


Sesso e Morte, dunque. Come in un libro di psicanalisi scritto da un poeta. Ma anche poesia pura sull'abbandono, sulla perdita, sulla fragilità delle relazioni. Come in The Crystal Ship, autentica gemma senza tempo, psichedelica, quasi galleggiante su un semplice tappeto sonoro.

Prima che tu scivoli
Nell'incoscienza
Vorrei avere un altro bacio
Un'altra risplendente
Opportunità di beatitudine
Un altro bacio
Un altro bacio
I giorni sono luminosi
E pieni di dolore
Avvolgimi nella tua dolce pioggia
Il tempo da cui sei fuggita
Era troppo insensato
Ci incontreremo ancora
Ci incontreremo ancora
Dimmi dove
Giace la tua libertà
Le strade sono campi che non muoiono mai
Salvami dalle ragioni per cui
Tu dovresti piangere
Ed io dovrei volare
La nave di cristallo
Sta per essere riempita
Mille ragazze
Mille brividi
Un milione di modi per passare il tempo
Quando torneremo
Ti scriverò


Quel che venne da chiedersi in quel lontano mese di gennaio del 1967 fu se i Doors avrebbero avuto sufficienti energie per mantenere aperte le porte della percezione, quelle di cui parlava Aldous Huxley nel suo celebre libro del 1954 ed a cui Morrison si era ispirato. La chiave stava nella capacità di resistere alla tentazione di un egocentrismo assoluto, forse inevitabile nelle personalità forti. La risposta è nota a tutti.  

sabato 1 settembre 2012

UMMAGUMMA - Pink Floyd (voto: 7)

Può un disco diventare una pietra miliare per ragioni diverse dalla qualità del suo contenuto musicale?
La domanda sorge spontanea quando ci si accosta a questo doppio album dei Pink Floyd del 1969, la cui parte live fu registrata tra Birmingham e Manchester, e quella in studio a Londra, ad Abbey Road.
Se a livello più generale pensiamo alla centralità storica del movimento punk, al suo preciso messaggio di rottura del modello musicale classico, progressive e sinfonico su cui si abbatté come una scure senza lasciar traccia di capolavori immortali, la risposta è sì. 
Sì, perchè se è vero che un disco è musica, è altrettanto vero (e non meno importante) che esso è anche forma, linguaggio che prescinde dai suoni, metalinguaggio. In questo senso, Ummugumma è un'isola con peculiarità tutte sue nell'universo della grammatica del disco.
Mi verrebbe voglia, per esser coerente con le premesse, di tralasciare giudizi sui contenuti musicali dell'opera e limitarmi alla sua struttura formale. Questo però non renderebbe giustizia alla bontà intrinseca di alcuni brani, soprattutto quelli dal vivo. Spenderò dunque qualche parola anche su questo.
Il primo disco contiene due brani live per facciata: Astronomy Domine e Careful With That Axe, Eugene sul primo lato, Set the Controls for the Heart of the Sun e Saucerful of Secrets sul secondo.
Astronomy Domine fu composta quando Syd Barrett faceva ancora parte del gruppo. La versione live in Ummugumma è splendida per l'atmosfera catturata: sembra quasi di vedere gli sguardi assorti e l'ascolto silenzioso del pubblico mentre il volo lisergico dell'astronave floydiana prosegue oltre i confini del nostro sistema solare. 
Careful with that axe, Eugene - che diventerà la colonna sonora di Zabriskie Point col nome di Come in number 51, Your time is up - ha un basso minimale ed un organo ipnotico, entrambi prodromici al famoso urlo folle e liberatorio di Roger Waters: una struttura musicale che assomiglia molto al paradigma della scena madre di un film giallo.
Set the Controls for the Heart of the Sun, letteralmente Regolate i Comandi per il cuore del Sole, ha nello stesso tempo il sapore della fantascienza e delle vigne assolate. I tamburi di Mason ed il cantato di Waters sul registro del sussurro, si innestano sull'arabesco del flauto per poi aumentare di velocità, mettendo l'ascoltatore sullo scomodo orlo di un cratere e lasciandolo lì da solo per alcuni secondi tra effetti elettronici che toccano tutte le gamme degli acuti, prima di tornare a riprenderselo, esausto e fuori di sè, per poi lentamente risvegliarlo una volta riportato al punto da cui era partito.
Saucerful of Secrets si muove su un territorio alieno, ostile, psichedelico fino al midollo, in un crescendo parossistico che conduce ad una figura di batteria ripetuta fino all'ossessione tra schiamazzi elettronici  e piatti di batteria luccicanti sullo sfondo. Poi tutto si placa, un po' come fa la mente umana dopo un convulso avvitamento parossistico. Il pensiero si fa ordinato con un organo scolastico ed una voce elegiaca che sembrano disegnare il nuovo modello della Pietas per la società post-industriale.
Ma è alla struttura del disco che voglio tornare. Alla sua grammatica ed alla sua sintassi.
Ummugumma è un disco cubista. Anzi, è il primo ed unico disco cubista della storia del Rock.
La copertina, davvero leggendaria, in cui lo specchio riflette un' immagine diversa da quella che realisticamente dovrebbe, ha un significato di profonda rottura con gli elementi prospettici e naturalistici alla stessa maniera di Picasso e di Braque nella pittura di inizio secolo scorso, quando fu appunto rinnegato il modello classico di rappresentazione secondo cui ogni cosa veniva guardata solo dalla posizione frontale dello spettatore. Da quel momento l'oggetto fu definitivamente scomposto e lo spettatore si trovò ad essere mobile e libero di disegnare un cammino circolare intorno all'opera.
Da questo punto di vista la copertina di Ummagumma è una potentissima introduzione visiva alla struttura del disco in sé, alla sua grammatica cubista. Per la prima volta il Rock ci consegna un'opera in cui lo l'ascoltatore  è presente al concerto di un gruppo e nello stesso tempo può ascoltare i quattro musicisti singolarmente, da quattro diverse angolazioni ed altrettante messe a fuoco. Il secondo disco infatti contiene quattro composizioni, ciascuna con la firma esclusiva di ogni singolo musicista. L'unica eccezione è Roger Waters che presenta due brani: Grantchester Meadows e Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict. La prima è una ballata fredda ed evocativa, dalla struttura particolarmente semplice. La seconda, un esperimento in perfetto stile Waters in cui viene esasperato il tema delle sonorità disturbanti.
I brani di Gilmour, Wright e Mason non sono degni di nota. Il chitarrista ha sì buone dote armoniche e senso della musica innato, senz'altro superiori a quelle di Roger Waters. Di Waters però non ha la potenza espressiva e soprattutto la vena creativa. Wright non è un buon compositore bensì un eccellente arrangiatore di parti pianistiche ed organistiche. La sua Sysyphus pertanto, così  ricercata al limite dell'orpellistico, non gli appartiene e non entusiasma. Anche Nick Mason, con la sua Grand Vizier's Garden Party, lascia il tempo che trova e rimpolpa l'assioma secondo cui la vera anima compositiva del gruppo dopo la dipartita di Syd Barrett, è solo e soltanto Waters.
Eppure, le due facciate del secondo disco ci permettono di guardare dentro l'anima di ciascuno di questi quattro individui e ci dotano di una straordinaria chiave di lettura del gruppo Pink Floyd che nessun album prospettico e naturalistico ci avrebbe mai potuto fornire.
Nessun'altra band si è mai messa così tanto a nudo come nell'esperimento cubista di Ummagumma. Lo hanno fatto paradossalmente proprio i Pink Floyd, intorno ai quali la caratteristica della riservatezza è diventata leggenda.

sabato 25 agosto 2012

Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band - The Beatles (voto: 7,5)

Nella più accurata biografia dei Beatles, a cura di Philip Norman (Shout! La vera storia dei Beatles) viene posta una domanda che suona un po' come una scommessa: c'è forse qualcuno che non ricorda esattamente il momento ed il luogo in cui ascoltò per la prima volta le note di Sgt. Pepper in quella lontana estate del 1967?
L'uscita del disco è di portata epocale. Forse solo lo sbarco sulla luna ebbe un impatto emotivo così profondo sulle assonnate coscienze di quella generazione di pre-sessantottini abituata a ballare spensieratamente sulle note di Elvis e sullo scanzonato beat inglese dei primi anni sessanta.
Anche io, sulla scia delle considerazioni di Norman, vorrei divertirmi con i miei lettori ponendo loro la seguente domanda.
Voi che come me non avete avuto l'opportunità di assistere in diretta all'uscita del disco, e lo avete ascoltato per la prima volta a distanza più o meno lontana dall'evento, avrete senz'altro avuto sensazioni diverse da quelle dei primi fortunati ascoltatori. Quali?
Io non posso certo rispondere per voi nè pretendere che le mie reazioni siano state simili alle vostre. Mi limiterò dunque a raccontarvi le mie personalissime impressioni.
Nel 1980 qualcuno mi regalò un disco di Adam and the Ants che trovai carino e nulla più. Me ne stavo steso sul divano con la copertina dell'album fra le mani. La giravo e la rigiravo. Ad un certo punto mi soffermai sul nome del gruppo: Adam e le formiche mi rimandò agli scarafaggi di Liverpool, gli insetti cosmopoliti per eccellenza, diffusi ad ogni latitudine del pianeta terra. Mi domandai: c'è più presunzione o modestia nel chiamarsi formiche (altro diffusissimo insetto) in contrapposizione alle nobilissime blatte inglesi? L'istintiva simpatia provata verso Adam and the ants mi fece propendere per la modestia. In fondo, la formica è molto più piccola dello scarafaggio. E così finii per interpretare la scelta del nome come un tributo alla grandezza dei Beatles.
Già. La grandezza dei Beatles. Di loro conoscevo le canzoni che conoscevano tutti: Yesterday, Michelle, Eleanor Rigby. Belle canzoni, armonie semplici ed evocative, testi al limite della banalità. Troppo poco per un ragazzo non ancora diciottenne, infatuato delle divinità genesiane, dei suoni sporchi dell'underground newyorkese, delle magie pinkfloydiane.
I Pink Floyd avevano appena pubblicato il concept album per eccellenza, The Wall.  Non una raccolta di canzoni,  ma un lavoro complesso costruito intorno ad un'idea di base: la vita come progressiva edificazione di un'imponente barriera tra uomo e uomo, nazione e nazione, sentimento e ragione.
Avevo sentito sempre parlare di Sgt. Pepper come di un concept album ma non avevo mai avuto la curiosità sufficiente per andatrlo a comprare. Adam e i Pink Floyd ruppero l'incantesimo e mi spedirono di filato verso il più vicino negozio di dischi.
Il primo ascolto di Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band avvenne senza particolari sussulti emotivi. Riconobbi With a little help from my friends per averla già ascoltata nella versione di Joe Cocker, mi accigliai un pochino difronte alla pesantezza degli archi di She's leaving home e storsi un po' il naso a metà di Getting better.
Tutto qui?
Il Muro era un'altra cosa per me: sonorità ricercate, pathos, anche alcune pregevoli finezze letterarie. Eppure, pensai, qualcosa dev'essermi sfuggito. Qualcosa d'importante che doveva avere a che fare con la Storia. Non la storia racchiusa nel disco: la Storia della Musica.
All'epoca non c'era Google che mi permettesse di consultare la hit-parade del 1967 per una verifica comparativa: la rivoluzione di Sgt. Pepper avrei dovuto capirla e accettarla con mezzi diversi.
Avevo un amico che collezionava Melody Maker, la famosa rivista musicale, sin dagli anni '60.
Mi rivolsi a lui.
Costui era parecchio più grande di me e, soprattutto, uno Zappiano incallito. Quando gli chiesi ragguagli sul panorama musicale del 1967, tirò subito fuori una copia del Melody dell'epoca e mi mostrò la prima pagina in cui campeggiava una foto di Zappa vestito da donna, con le gambe accavallate e due improponibili treccine. "Meet a mother!" era il titolo, con un chiaro riferimento alle Mothers of Invention. "Vedi - mi disse -Quest'uomo è un genio. Chiunque voglia conoscere davvero la musica, da lui deve partire e da lui deve tornare". Pensai che se gli avessi chiesto di Sgt. Pepper in modo diretto, mi avrebbe deriso per l'eternità. Il suo sarcasmo zappiano mi avrebbe ridotto a brandelli, povero diciassettenne amante del pop qual ero!
Decisi così di adottare un escamotage, un po' come fanno gli scrittori quando usano la terza persona parlando in realtà di se stessi. "E pensare - dissi - che il 1967 musicale è passato alla storia per un disco dei Beatles!". L'amico mise da parte il giornale, mi guardò dritto negli occhi e rimase così, in silenzio, per una decina d'interminabili secondi. "Quel disco cambiò tutto - ammise - Perfino me".
Capii che non avrebbe aggiunto altro. Feci allora un secondo tentativo. Tornai a casa, ripresi in mano il disco e lo appoggiai sul mio vecchio piatto Akai. Quando questo cominciò a girare, appoggiai con cura la puntina sul primo solco ed optai per un ascolto in cuffia. Erano le dieci di sera.
Fu come se si fosse aperto un sipario all'interno di un grande circo. Captai nitidamente, anche se in lontananza, il suono di uno strumento in fase di accordatura. Quando l'orchestra - ancora fra il brusio della folla - cominciò a suonare, io ero ormai dentro al tendone e capii che niente e nessuno sarebbero riusciti a farmi uscire da lì prima che la puntina si fosse sollevata dal disco.
Fu annunciato Billy Shears ed ebbi l'impressione che questo stesse cantando in playback. "In playback in un disco? Cosa diavolo sto pensando? Non ha alcun senso! - mi dissi".
Magie del circo. Anche quello felliniano creava suggestioni, ma aveva il vantaggio dell'immagine. Quello dei Beatles ti fa vedere attraverso i solchi sonori cose invisibili, come la locandina dello spettacolo (Being for the benefit of mr. kite) in cui viene assicurata la presenza del cavallo Harry che balla il Valzer. Ed anche l'ascoltatore inizia a ballarlo vorticosamente dopo il repentino passaggio dai 4/4 ai 3/4, scaraventato in una pista  rotante dove una miriade di cose gallegianti - abiti di scena, nasi da clown, nani e cilindri - disegnano cerchi sempre più veloci, finchè tutti improvvisamente si cade esausti e felici sulla terra che son soliti calpestare cavalli, tigri e leoni. Il tempo di rubare velocemente un gadget e poi di corsa si fa ritorno al posto che più ci compete: quello di spettatori composti ed attenti. Ed allora ecco che la soglia dell'attenzione si fa altissima quando l'orchestra intona il canto di Lucy (la figlia di Lennon o l'LSD?) che preferisce starsene in cielo con i suoi diamanti (forse una trapezista dal costume luccicante). Quel che è certo è che ne siamo rapiti e la seguiamo con lo sguardo rivolto verso l'alto. Lucy, la ragazza con gli occhi caleiodoscopici, ti chiama. Tu ti volti e lei scompare. Sempre ad occhi chiusi ascolti l'orchestra suonare Fixing a Hole, semplice e misteriosa. Sembra sempre sul punto di svelarti l'alchimia della semplicità e tu credi di poterla afferrare, ma è un'illusione. La stessa illusione di chi pensa di poter riparare un buco da cui entra la pioggia, impedendo alla propria mente di vagare.
Poi, improvvisamente, tutto si ferma.
Quando i primi accordi di A day in the life partono, lo spettacolo è finito. I musicisti hanno dismesso gli ingombranti abiti da scena, le luci si sono spente, gli spettatori hanno abbandonato il circo.
E' come se tutto, solennemente, tacesse. Eppure c'è una musica che si diffonde, ma lo fa su un piano diverso. Intimo.
Il brano descrive una sequenza di scene apparentemente inconciliabili: la morte di un uomo in un incidente stradale per non aver rispettato il semaforo rosso, la visione di un film sull'esercito inglese vittorioso in guerra,  un uomo in grave ritardo sul lavoro che è costretto a compiere a ritmo accelerato (e nella musica l'accelerazione del ritmo è sorprendente) le azioni rituali del mattino, il pettinarsi e far colazione. Ma è l'ultima strofa del brano a dare la definitiva dimensione del capolavoro all'intero album e, probabilmente, all'intera storia della musica pop.

Ho letto la notizia oggi
Quattromila buche a Blackburn, Lancashire
E sebbene le buche fossero abbastanza piccole
Hanno dovuto per forza contarle tutte
Ora sanno quante buche servono per riempire l'Albert Hall

Quattromila loculi per i soldati morti non accendono le coscienze dei responsabili della guerra. Nelle loro menti ottuse si genera un semplice parallelismo con i posti a sedere del teatro in cui vanno a seguire i concerti.
Avrei voluto raccontarvi del mio primo ascolto di Sgt. Pepper. Ho dovuto però aggiungere anche il secondo per darvi la reale dimensione delle emozioni che il disco mi suscitò.
Prendetela come una raccomandazione: mai fermarsi al primo ascolto quando si ha difronte un capolavoro.
Vorrei aggiungere, per finire, i miei più sinceri ringraziamenti ad Adam and the Ants, a The Wall , al mio vecchio amico zappiano ed alle casualità tutte, senza il contributo dei quali avrei probabilmente dovuto attendere ancora molti anni prima di ascoltare questo disco.