giovedì 13 giugno 2024

EGE BAMYASI - CAN (voto: 8,5)



Se in gioventù avessi iniziato ad ascoltare i CAN partendo da Tago Mago, probabilmente la mia avventura col gruppo tedesco e col kraut rock tutto si sarebbe conclusa lì: troppo sperimentale, perfino eccessivo nella sua originalità. Invece ebbi la fortuna di imbattermi prima in questo disco rimanendone folgorato, e solo allora, con accresciuta consapevolezza, arrivai ad affrontare quello scoglio. E sì, perché Ege Bamyasi è un disco meno sperimentale di Tago Mago, adatto perfino alle orecchie immature di un adolescente che aveva comunque già conosciuto le complesse sonorità della scena di Canterbury.
I CAN erano quattro ragazzi tedeschi imparentati a vario titolo col variopinto mondo delle avanguardie di fine anni sessanta: il bassista Holger Czukay ed il pianista Irmin Schmidt furono allievi di Stockhausen; il batterista Janik Liebezeit veniva dal jazz, il chitarrista Michael Karoli fu a sua volta allievo di Czukay, mentre il cantante Malcom Mooney veniva addirittura dal mondo delle arti figurative. I fermenti, nella Germania del kraut rock, erano perfetti per costituire un ensemble e tentare di mettere al servizio dell’arte un così alto concentrato di conoscenze tecniche.
I primi dischi, soprattutto il già citato Tago Mago uscito nel 1971, confermarono che il gruppo era di livello superiore, sia per tecnica che per creatività. La loro proposta era un originale mix di musica da camera, sperimentazione elettronica, rock, jazz e funky. Non era, come già accennato, musica per tutti; finché nel 1972 fu pubblicato Ege Bamyasi, con in copertina un barattolo di ortaggi turchi (il pessimo gombo dell’Egeo) che faceva il verso alla lattina della Campbell di Andy Warhol.
Non ascoltavo Ege Bamyasi da tantissimi anni finché stamattina, approfittando di un lungo tragitto in macchina, ho deciso di interrompere l’astinenza e di riaccostarmi a questo disco che determinò in modo prepotente il corso dei miei gusti musicali.
Da Pinch a Spoon, che fu anche un incredibile successo commerciale (erano altri tempi, la musica era ancora una cosa seria), passando per la lunga suite Soup piena di break e di ripartenze, il disco continua a suonare in modo meravigliosamente moderno, ed è divertente rintracciare nei suoi solchi i semi delle tendenze sviluppatesi nei decenni successivi. Penso soprattutto al trip hop dei Massive Attack (in particolar modo a Protection e Mezzanine) per le atmosfere intrise di ritmiche ossessive e bisbigli elettronici; penso perfino ai Sonic Youth per il modo tutto particolare di distorcere il suono dell’elettrica (sembra che Thurston Moore abbia divorato i CAN a colazione, pranzo e cena); penso alle nostre avanguardie pop dell’epoca, in particolare agli Area; penso ai Radiohead, a certo punk e post punk avanguardistici; penso alla no wave newyorkese ed in particolare alla chitarra stralunata e nevrotica di Arto Lindsay. Penso a tutto questo e mi chiedo cosa aspettiate ad ascoltare la musica dei Can. La loro è una musica elegante e senza tempo, come elegante e senza tempo è ad esempio il design industriale tedesco: freddo e caldo nello stesso tempo, preciso e tagliente come il math rock emerso nel corso degli anni ottanta, a cui però mancavano un cuore ed un’anima pulsanti.
Partite da Ege Bamyasi e poi non fermatevi più.